Non si può affrontare un tema come quello dell’affidamento dei bambini e nello specifico dei bambini con sindrome di Down senza guardare le due facce della medaglia: da una parte chi accoglie quei bambini non voluti, dall’altra chi decide di non poter intraprendere con quel figlio una strada di vita.
Dietro l’abbandono si celano storie uniche. Problemi e pensieri possono attanagliare i futuri genitori ma chiedere aiuto è possibile.
Elisa Facondini lavora all’Ospedale “Infermi” di Rimini, UO Ostetricia-Ginecologia. Il suo compito è sostenere psicologicamente i futuri genitori al momento della diagnosi prenatale, anche nel caso della diagnosi di un bambino con sindrome di Down.
“Le situazioni sono tutte diverse. – ci spiega la dottoressa – Per quel che mi riguarda sono rari i casi che ho incontrato durante la mia attività professionale relativi all’affido di bambini con sindrome di Down. Un caso su tutti: mi trovai davanti a dei genitori profondamente in difficoltà per la diagnosi post-natale di sindrome di Down del neonato. La situazione per la coppia era molto complessa anche da un punto di vista culturale, visto che nel loro paese di origine questo tipo di caratteristiche genetiche vengono rifiutate fino all’abbandono del bambino. Sotto loro richiesta, insieme alla neonatologa, abbiamo provveduto ad indicargli la strada dell’affido, secondo le regole imposte dalla legge. Inoltre abbiamo convinto i genitori a partecipare ad una serie di incontri di sostegno psicologico per superare lo stato di prostrazione. Alla fine del percorso i genitori hanno accettato lo stato del figlio e hanno chiesto aiuto ai servizi territoriali dell’Ausl per poter tenere con loro il bambino”.
Ma questo è un caso molto particolare, perché la maggior parte delle volte si tratta di diagnosi pre-natali. “In questo caso i genitori hanno bisogno di valutare quale sia la strada migliore da intraprendere. Vengono assistiti dentro l’ospedale da un’equipe multidisciplinare. Se è vero che nel momento della comunicazione c’è il trauma è altrettanto vero che ci si può prendere un periodo per riflettere, naturalmente rispettando i tempi di una possibile interruzione volontaria di gravidanza”.
Difficile fare casistica, difficile disegnare un profilo ma “orientativamente posso dire che sono molto meno della metà le coppie che portano avanti la gravidanza dopo aver saputo della malattia del figlio”. Poche quelle che decidono di affidare il loro piccolo. Ci sono elementi che orientano una scelta piuttosto che un’altra? Quali sono i timori più grandi?
“Ogni protagonista reagisce diversamente a seconda della propria storia personale, delle sue rappresentazioni interiori dei miti familiari, dei passati traumi sopiti e più in generale sulla base delle sue credenze religiose o convinzioni personali. La presenza già di un figlio è uno dei fattori più importanti che i genitori valutano prima di scegliere tra interrompere la gravidanza o proseguirla con o senza ipotesi di affido.
Indipendentemente dall’esito queste decisioni sono per la famiglia difficili da prendere, ma una buona organizzazione del supporto e della collaborazione con l’équipe multidisciplinare aiuta almeno a creare quel senso di protezione che rasserena nel momento della scelta”.
Angela De Rubeis