Gratitudine, gratuità, grazia, grazie: sono vocaboli che appartengono alla costellazione di una parola maiuscola e irrinunciabile del lessico cristiano: eucaristia. Ma da vari segnali risultano anch’esse sempre più esiliate dalla nostra cultura. Non potremo mai uscire dal tunnel di questa crisi di cui si fatica a vedere la fine, se non impareremo di nuovo a declinarle, se noi cristiani non torneremo umilmente a frequentare la scuola dell’eucaristia. È alla mensa di Gesù che si può riapprendere la grammatica della grazia e del grazie. È alla cena del Signore che possiamo riprendere il percorso che ci porta dall’ingratitudine alla gratuità.
1. In una società così poco socievole, che sembra sempre più un arcipelago di tanti isolotti, angusti e tristi, quanti sono i nostri ’io’ – tutti narcisisticamente occupati a fotografarsi ognuno con il proprio selfie – sembra che il manifesto che ci riproduce ad alta definizione si possa riassumere nello slogan: “autonomia ingrata”. È vero, amaramente vero: ai nostri giorni la vicinanza esteriore tra le persone sale in proporzione diretta alla loro lontananza interiore. La gratitudine, invece, è figlia legittima dello stupore e della sorpresa: uno stupore incontenibile, ’coniugato’ – letteralmente legato in coppia – con l’inimmaginabile sorpresa di trovarsi di fronte a un dono eccedente, immeritato, imprevedibile.
È la ’lezione’ dell’eucaristia, che significa ’rendimento-di-grazie’. Ricordiamo come la grande preghiera eucaristica cominci con un sussulto di gratitudine: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo…”. Certo, noi poveri mortali ci rendiamo ben conto che i nostri inni di lode non possono ingrandire la già infinita grandezza di Dio. Il quale non ha affatto bisogno di un supplemento di lode, ma per un dono del suo amore ci chiama a rendergli grazie. Dio trova la sua gloria non nel prenderla da noi, ma nel parteciparci la sua. Perché “la sua gloria è la nostra vita” (s. Ireneo).
Così ha fatto Gesù: nella sera in cui veniva tradito, ha preso il pane e ha reso grazie, letteralmente: ha sciolto al Padre il suo più splendido canto di lode, perché in quella circostanza tremenda l’amore che il Padre gli infondeva permetteva al Figlio amato di trasformare un odio totalmente arbitrario in una abnegazione totalmente gratuita. In breve, con il dono dello Spirito d’amore, Gesù ha trasformato un grandissimo dolore in un amore infinitamente più grande.
2. Questo facciamo noi cristiani, quando celebriamo l’eucaristia. Senza dubbio, si possono vedere le cose e le persone in un modo superficiale: quando le si guarda unicamente per possederle o per goderne egoisticamente; quando la morbosa voglia di riuscire a dominarle diviene fonte di ansie sfibranti e di angosciosi affanni. L’eucaristia ci insegna a guardare tutte le creature con lo sguardo limpido di Gesù, ci guida a contemplarle con gli occhi purificati di Francesco d’Assisi, ci insegna e ci impegna a considerarle come parole divine nel cuore stesso delle cose: a vedere il sole, il vento e il fuoco come fratelli, e la luna, le stelle, l’acqua e perfino la morte come sorelle.
La gratitudine, a sua volta, genera la “gratuità”. Il ricevere, infatti, precede sempre il fare e l’accogliere anticipa il dare. Ma la gratuità non è riducibile alla semplice e pur benemerita filantropia. Mentre la filantropia trova la sua forza nella cosa donata, nella sua oggettiva entità, nel quantum regalato – tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico – la gratuità invece genera reciprocità, mettendo chi riceve nelle condizioni concrete di ricambiare il dono. Mentre nel regalo ti do per ricevere – è la logica dello scambio dei regali – nel dono gratuito invece ti do perché tu possa a tua volta donare (non necessariamente a me). La filantropia – fa quello che fa – per gli altri; la gratuità lo fa con gli altri. La filantropia rischia di creare dipendenza; la carità provoca vicinanza. Perché il dono non umili l’altro, devo dargli non solo qualcosa di mio, ma qualcosa di me, e il dono è completo quando dono completamente me stesso.
Nell’eucaristia si verifica il massimo della gratitudine e il massimo della gratuità. Gesù non mi dona semplicemente la sua sapienza e la sua forza, ma mi dona tutto se stesso, perfino la sua fragilità, inscritta nella sua carne e nel suo sangue. Si verifica così la perfetta coincidenza tra il dono e il donatore, e si realizza la piena, reciproca unità tra il donatore e ciascuno dei molti donatari.
Pensiamo al segno del pane, trasparente immagine di gratuità: la sua fragrante presenza nelle nostre case richiama l’aspirazione alla pace, il sapore della tenerezza che vorremmo sperimentare nella quotidianità. Spezzare il pane rivela gioia di condivisione, interiore certezza che spinge a superare le fatiche e le difficoltà nelle relazioni reciproche e nelle situazioni faticose. Poterlo spezzare ogni giorno è speranza di esistere non dell’effimero, ma della vera sostanza. che rende interiormente libera e perennemente buona e bella la nostra esperienza di vita. Introdurre lo spirito dell’eucaristia nella nostra esistenza vuol dire porre il mistero che contiene al centro del nostro essere e del nostro operare, come energia generante un modo di vivere che ne sia autentico riflesso. Il nostro pellegrinare quotidiano fra le cose assume, allora, una continuità di lode, celebrata in tutto ciò che siamo, facciamo, proviamo, anche nella sofferenza, nella contrarietà e nella contraddizione.
Si verifica così in pieno l’obbedienza all’indicativo-imperativo di Gesù: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt10,8).
3. Diametralmente opposta alla logica eucaristica è la logica del gioco d’azzardo. Si tratta di una immonda, drammatica caricatura della gratuità. Lo dobbiamo dire a chiare lettere: il gioco d’azzardo è immorale. Si basa sull’adescamento dei soggetti deboli: i poveri, i disoccupati, le casalinghe, gli anziani, i giovani, perfino i bambini. Si basa sulla speranza di facile e immediato arricchimento, senza lavoro. Severa, al riguardo, la parola di s. Paolo: “Chi non vuol lavorare, neppure mangi… Ordiniamo di guadagnare il pane lavorando con tranquillità” (2Tess 3,10.12). La promozione del gioco d’azzardo è ancora più aggressiva e grave in un periodo di crisi economica e di povertà diffusa come l’attuale. Inoltre occorre tenere presente che il contesto culturale, in cui il gioco d’azzardo è praticato, è mafioso. Le stesse ditte che producono e collocano le macchine da gioco nei locali pubblici sono in maggioranza straniere e senza possibilità di tracciabilità da infiltrazioni mafiose.
Si tratta di un fenomeno che continua a registrare una paurosa escalation. La spesa pro capite nel decorso anno in Italia per il gioco d’azzardo è stata di € 1270; è il 10% della spesa degli italiani, compresi i neonati. Siamo quarti nel mondo per la raccolta del gioco, e Rimini è tra le prime città in Italia per volume di spesa pro capite nel gioco d’azzardo. Il fenomeno è esploso raggiungendo una raccolta di ben 85 miliardi all’anno, rispetto ai 24 di dieci anni fa. A fronte di questa spesa scellerata, si registrano le cifre spaventose delle vittime del gioco d’azzardo: due milioni di italiani a rischio dipendenza, 800mila malati; ben 400mila bambini tra i 7 ed i 9 anni hanno già puntato dei soldi.
Su questo fenomeno ho già avuto modo di alzare la voce l’anno scorso e, se ora ci ritorno, non è solo perché il fenomeno nel frattempo ha registrato una ulteriore impennata, ma anche perché si è verificato un fatto che apre il cuore alla speranza. Infatti si è raggiunto ed è stato ampiamente superato il quorum delle firme necessarie per la proposta di legge di iniziativa popolare contro il gioco d’azzardo. La Corte di Cassazione ha ammesso la proposta che ora è all’esame delle competenti Commissioni parlamentari. Ma occorre andare avanti, senza se e senza ma. Occorre favorire l’associazione “giocatori anonimi”: a Rimini c’è. Occorre favorire il “bollino qualità” per i locali pubblici che non accettano il gioco d’azzardo: a Rimini, purtroppo, sembra che non ce ne sia nessuno. Occorre che dell’argomento si faccia cenno diretto nell’omiletica e nella catechesi.
Sorelle, Fratelli, Amici, chiediamo ora la benedizione al Signore per la nostra Città. Noi lo vogliamo pregare perché provochi noi credenti a non tenerlo prigioniero nelle nostre chiese. Lui non bussa dall’esterno per entrare, ma dall’interno per uscire. Nessun cittadino abbia paura: Gesù non viene a toglierci nulla. Fare di Cristo il cuore della Città non significa amputare quanto di umano ci qualifica, ma eliminare quanto di disumano ci rattrista. Noi preghiamo perché Gesù venga ad abitare tra di noi e resti con noi per sempre.
+ Francesco Lambiasi