Der Freischütz, l’opera romantica di Carl Maria von Weber in un nuovo allestimento del regista svizzero Christoph Marthaler
BASILEA, 20 settembre 2022 – Da un’opera come Der Freischütz si possono estromettere completamente gli echi della natura? Christoph Marthaler ci ha provato, eliminandone ogni più piccola reminiscenza: di certo un azzardo per questa ‘romantische Oper’, unanimemente riconosciuta come capostipite dell’opera tedesca. Con provocatoria consapevolezza e un caustico sarcasmo degno di Thomas Bernhard, il regista svizzero ha effettuato per il teatro di Basilea un’operazione che sembra ridimensionare l’accoglienza trionfale con cui Il franco cacciatore venne sempre salutato da quando, nel 1821, era apparso sulle scene. Spogliato da ogni anelito romantico, il suo Der Freischütz è immerso in un’asfittica e desolata provincia svizzera: cornice visiva di una modernità senza tempo e, dunque, ancor più immutabile. La scena di Anna Viebrock, che firma anche gli ironici costumi (difficile trovare abiti altrettanto brutti per le due interpreti femminili!), configura infatti uno stanzone dimesso, con dei tavolini dove siedono i componenti di un circolo della caccia – forse memoria di una delle tante corporazioni elvetiche – con un piccolo palco sul fondale in cui, ogni tanto, si materializza il coro.
Marthaler riesce molto bene a sostenere queste scelte così radicali per l’intera prima parte, soprattutto grazie a un eccezionale lavoro sugli interpreti, trasformati in magnifici attori. Riscrive anche i dialoghi – da non dimenticare che si tratta di un Singspiel – ed effettua qualche stravolgimento drammaturgico, in grado di rendere persino più efficace l’andamento narrativo: del resto Weber era piuttosto scontento del libretto che Johann F. Kind aveva tratto da una raccolta di storie di fantasmi tedeschi. Gradualmente però il fascino evocativo del Freischütz – dovuto in verità soprattutto alle meravigliosa orchestrazione – si smarrisce e il versante musicale corre troppe volte il rischio di apparire ancillare rispetto a quanto si vede nello spettacolo (nonostante il tormentone dei cinque strumentisti a fiato che salgono più volte in palcoscenico). Lascia perplessi poi la scelta di non far avvertire gli spari o di eliminare i rumori della natura legati alla “gola del lupo”: di volta in volta, vengono surrogati dai colpi dei boccali di birra sbattuti sui tavolini, mentre – per simulare il vento – tutti soffiano dentro i bicchieri, direttore e orchestrali compresi. Con il risultato che l’epicentro drammatico dell’opera rimane inghiottito da un grigiore omogeneo.
Fortunatamente, quello che va perso in buca viene recuperato in gran parte dalla compagnia di canto. A cominciare dal soprano Nicole Chevalier, che ha sfoderato una notevole capacità nel pilotare la voce durante le sue due arie, disegnando un’Agathe ben lontana dalla liliale fanciulla della tradizione: una donna a disagio nell’ambiente in cui vive, che manifesta nevrosi adolescenziali e, dunque, in grottesco contrasto con l’interprete, non più giovanissima. Accanto a lei Rosemary Hardy è una sorta di istitutrice – ogni tanto le due si scambiano qualche battuta in inglese – molto spiritosa e ben lontana dalla Ännchen configurata dal libretto come una giovane parente della protagonista femminile. Il tenore Rolf Romei ha affrontato con apprezzabile sicurezza la scrittura di Max, il cacciatore che aspira all’amore di Agathe, ma a imporsi è stato comunque il baritono Jochen Schmeckenbecher, un Kaspar dalle molte sfaccettature supportato di robusti mezzi vocali. Tutti ottimi cantanti-attori gli altri interpreti maschili, a cominciare dal basso Andrew Murphy, un austero Kuno. Benché concepito per baritono, il ruolo di Ottokar è stato qui risolto molto bene, anche scenicamente, dall’anziano Karl-Heinz Brandt, uno stupefacente tenore di grazia. Resta invece soltanto un attore Raphael Clamer, interprete di Kilian, con inevitabili limiti nel canto. Nel duplice ruolo del pio eremita e del demoniaco Samiel – quasi a sottolineare che in tale società non c’è alcuna differenza tra bene e male – era Jasin Rammal-Rykala, molto giovane ma con caratteristiche da basso profondo già definite. A loro si è aggiunto, nei panni del Cavaliere nero – personaggio non previsto dal libretto – un attore svizzero di fama come Ueli Jäggi, in qualità di voce recitante.
Titus Engel ha diretto la Kammerorchester Basel, ben corrisposto dagli strumentisti, riuscendo sempre a stare al gioco, così come il Coro del Teatro, assai versatile in scena: del resto la regia ha impegnato davvero tutti, facendo sollevare più volte l’orchestra fino all’altezza del palcoscenico e trasformando i coristi in immaginari orchestrali, alle prese con dei violini. Accoglienza molto calorosa da parte di un pubblico che forse condivide lo stesso sguardo impietoso di Marthaler sulla società svizzera. Tanto è vero che spesso ride di gusto.
Giulia Vannoni