Al Ravenna Festival per la prima volta in Italia La vittoria sul sole, una provocatoria opera del 1913
RAVENNA, 21 giugno 2017 – Una sorta di rivolta contro i padri. Se Dostoevskij fa dire al principe Miškin, nell’Idiota, che “la bellezza salverà il mondo”, solo quarantacinque anni dopo, nel 1913, tre artisti russi – il poeta Aleksej Kručënych, il musicista Michail Matjušin e il pittore Kazimir Malevič – si prefiggono di dare forma teatrale al brutto. Nei fatti l’intento riesce solo a metà e, nonostante i fischi e gli insulti ricevuti alla prima, La vittoria sul sole – vista con gli occhi di oggi – appare godibile e soprattutto divertente. Quest’opera cubofuturista – un’etichetta, che già da sola implica l’adesione a un irripetibile movimento artistico – coagula idee che circolavano in quegli anni, ricchi di fermenti innovativi, non solo in Russia.
Il sole e, ancor più, la luce che promana è stato ritenuto – da sempre – emblema di bellezza artistica, seppure irraggiungibile: lo testimoniano le varie rielaborazioni del mito di Fetonte di cui è costellato il teatro d’opera. Per i tre autori diventa invece un simbolo da ridimensionare: in conseguenza delle straordinarie novità che ribaltavano consolidate certezze in campo scientifico (la relatività di Einstein da un lato, le geometrie non euclidee elaborate dai grandi matematici russi dall’altro) e alla luce – è proprio il caso di dirlo – delle innovazioni tecnologiche che si susseguivano con sempre maggior frequenza (soprattutto gli apparecchi per il volo, perché violare la legge di gravità rappresentava una delle massime aspirazioni dei futuristi).
Per una coincidenza forse non casuale La vittoria sul sole – mai rappresentata in Italia – è andata in scena la sera del solstizio d’estate all’Alighieri, in occasione del Ravenna Festival, quest’anno dedicato al centenario della rivoluzione russa. A proporla la compagnia di cantanti-attori del Teatro Stas Namin di Mosca, specializzati nel musical, con la regia dello stesso Stas Namin e la collaborazione di Andrej Rossinskij. Per agevolare il pubblico il libretto di Kručënych e il prologo di Velimir Chlebnikov, che lo precedeva, sono stati proiettati in traduzione italiana. Così, nemmeno la lingua irta di neologismi (il russo o, meglio, la sua bizzarra declinazione in chiave futurista) ha posto ostacoli, tanto più che viene percepita come puro suono e raffinato gioco di onomatopee. Le musiche di Matjušin, invece, proposte in un arrangiamento di Aleksandr Slizunov per due pianoforti, sono state affidate a due autentiche maratonete della tastiera: Aleksandra Popova e Anastasja Makuškina. Ma a catturare l’attenzione ci hanno pensato soprattutto il cromatismo delle immagini sceniche e gli spiritosi costumi, desunti dai bozzetti originali di Malevič, a metà fra suggestioni futuriste e cubiste, valorizzati dalle divertenti soluzioni di una regia ben assecondata dai sedici atletici interpreti.
Il potere evocativo di quest’“opera in due agimenti e sei quadri” – della durata di poco più di un’ora – del resto agisce su un differente piano semantico, per la capacità d’innescare una rete di connessioni con le avanguardie artistiche di quegli anni in campo pittorico e musicale: dal Ballo Excelsior di Marenco, che già trent’anni prima celebrava le più ardite novità tecnologiche, all’Aviatore Dro di Francesco Balilla Pratella, che nel 1920 realizzerà l’unica opera futurista italiana. Anche se forse la coincidenza che meglio fotografa la rivoluzione in atto, proprio in quegli anni, è La sagra della primavera, composta da Stravinskij. Oggi viene acclamata come capolavoro, ma la sera della première, a Parigi, non tutti erano d’accordo e tra gli spettatori scoppiò una rissa, fra le più violente che mai accompagnarono un debutto musicale. I tre provocatori futuristi non hanno suscitato altrettanto sdegno, perché la loro creatura appare soprattutto come uno spiritoso esperimento: un’interessante testimonianza di un’epoca caleidoscopica come poche altre.
Giulia Vannoni