Miei carissimi fratelli e sorelle, ci siamo. Questa è l’ultima lettera ‘quaresimale’ che vi scrivo in questa interminabile ‘quarantena’, prima di Pasqua. Sarà una delle Pasque più sofferte della storia o – speriamo! – almeno della nostra vita. Certo, domenica prossima ci mancherà la letizia di poterla celebrare come di consueto.
Ma non ci mancherà, non ci può mancare la gioia di viverla. Ad una condizione: che ci lasciamo contagiare dal… Calvariovirus. E ne diventiamo ‘portatori sani’.
Non so se succede anche a voi. Penso di sì. A me capita che, quando arrivo alle pagine tristi e dolenti della passione di Gesù, le parole mi si spengono in gola. Ma lo stesso mi succede per le pagine squillanti e felici della risurrezione. Non che prima mi viene da piangere e poi mi viene da gioire. Mi viene da piangere e da gioire, insieme, di commozione e di stupore, prima e dopo la Pasqua. Perché la fede mi fa sbirciare l’intreccio misterioso e intrigante tra sofferenza e gioia, annodate con nodo inestricabile dallo stesso laccio: l’amore.
Amore nella passione e amore nella risurrezione. Senza l’amore, la morte di Gesù sarebbe vuota e sterile. E la sua risurrezione, senza l’amore, sarebbe cieca e inutile.
Forse mi sto incartando. Provo a spiegarmi con una immagine: quella della sorgente, del fiume e del mare.
Partiamo dal mare.
Il Calvario ( croce + tomba vuota) è come un mare sconfinato, senza fondo e senza sponde. È formato da miliardi di miliardi di miliardi di gocce. Fuor di metafora quelle gocce sono le lacrime di tanta povera gente che soffre, ama e spera.
Sono goccioline di sudore di tante e tanti che lavorano, si sacrificano, si sfiancano per il bene comune. Penso in particolare ai tantissimi malati che con il loro dolore, vissuto con umile amore, rendono più pura l’atmosfera morale della società e bruciano le tossine inquinanti del mondo che abitiamo. Pensiamo in questi giorni del Covid-19 ai tantissimi medici – ben 8mila! – che hanno dato la disponibilità alla Protezione Civile. Pensiamo agli oltre 120 giovani riminesi che si sono offerti come volontari alla nostra Caritas diocesana.
Pensiamo soprattutto ai tantissimi malati, ai loro parenti e amici, che stanno associando il loro dolore alla croce di Gesù. Qualcuno dirà: “Questo al massimo vale per voi cristiani. Ma allora, secondo voi, sarebbe inutile il pianto e sprecato il sudore di quanti cristiani non sono o non si sentono di essere?”. E invece no, amici miei. Assolutamente no.
Ve lo dico con parole ben più autorevoli delle mie. Queste, sottoscritte il 7 dicembre 1965 da Paolo VI e dalla bellezza di ben 2225 vescovi di tutto il mondo, al termine del Concilio Vaticano II. La citazione è un po’ lunga. Ma il contenuto è abbagliante. “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. E ciò non vale solo per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo infatti è morto per tutti. Pertanto dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero della Pasqua” (GS 22).
Bellissimo! La nostra esistenza non è affatto sterile o del tutto inutile. “Il nostro dolore alimenta l’economia sommersa della grazia” (T. Bello). La nostra sofferenza è come un rigagnolo che va ad ingrossare quel fiume carsico del sangue di Cristo, fino a riversarsi, a sua volta, in quell’oceano di carità che assicura la possibilità di vita sulla terra.
Il Calvario non è soltanto l’oceano della Carità, ma è anche il fiume della Speranza. Speranza significa forza di rinnovare il mondo. Spinta a cambiare le cose. Slancio per un bel ‘salto vitale’ (non mortale!) in avanti. Nonostante tutto.
Nonostante lo tsunami micidiale del Covid-19. Nonostante l’ecatombe planetaria che sta causando.
Non mi dite, amici miei, che questa è bolsa retorica buonista. O che vi sto rifilando un dolciastro sciroppetto consolatorio. Ve l’ho detto e ridetto tante volte: noi non speriamo perché le nostre cose vanno bene, ma perché il Padre dei cieli non si è ancora stancato – né mai si stancherà – di volerci bene. Noi speriamo perché Cristo è risorto, e lui, da buon Pastore innamorato, non si è ancora stancato – né mai si stancherà – della nostra irrefragabile certezza, cantillata da un Salmo dolcissimo: “Le mie lacrime nell’otre tuo raccogli”. Tutte le lacrime. E le lacrime di tutti. Una per una. Come fossero gocce di rugiada che lui sa abilmente trasformare, una per una, in perle lucenti. Il Crocifisso-Risorto è capace di farci vedere perfino la morte dal versante della risurrezione. Che è il versante della speranza.
Il Calvario non è solo il mare della Carità.
Non è solo il fiume della Speranza. È anche la sorgente della Fede. Fede significa fidarsi e affidarsi. Significa consegnarsi nelle mani forti e tenere del Padre-Abbà. Senza pretese. Senza riserve. Senza ricatti. Come ha fatto Gesù, confitto (ma non sconfitto!) sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno la mia vita”.
Nella tomba vuota è ormai lo scrigno dove giace l’inossidabile chiave di lettura della vita e la password decisiva della storia. D’ora in poi, non un valore, un precetto, una legge disegneranno l’itinerario della vita. E nemmeno una formula, un programma, un progetto. Ma una Persona è il cuore del nostro piangere e sudare. Del nostro amare e gioire. Del nostro credere e sperare.
E del nostro stesso vivere.
Miei carissimi tutti, ma ci rendiamo conto che se è vero che Cristo è risorto, allora è altrettanto vero che tutto cambia?
Vi saluto e, nonostante il Covid-19, vi auguro di cuore Buona Pasqua!
Vostro + Francesco Lambiasi