Home Vita della chiesa Crisi: che cosa possiamo fare

Crisi: che cosa possiamo fare

Rimini, 1 Maggio ‘09,
Festa di san Giuseppe
Lavoratore

Carissimi,
vi scrivo a ridosso dei terribili giorni del terremoto in terra d’Abruzzo. Avevo appena deciso di dedicarmi subito dopo Pasqua a preparare qualche pensiero e alcune proposte concrete per questo 1 Maggio dei Lavoratori, quando la notte delle Palme è cominciata la settimana di passione per tantissimi nostri fratelli e sorelle dell’Aquila e dintorni, facendo del terremoto una drammatica, realissima metafora di quella crisi economica e finanziaria che sta letteralmente sconquassando il mondo. Speriamo che la straordinaria forza morale con cui gli amici abruzzesi stanno reagendo alla prova, sia contagiosa anche per tutti noi e ci restituisca la speranza che il traguardo della risurrezione è possibile. Sempre. Ed è meta garantita, ma ad una condizione irrinunciabile: che ci decidiamo ad imboccare lo svincolo che passa per la tappa del Calvario, e ci porta ad inchiodare sulla croce di Cristo i nostri egoismi personali, familiari, di gruppo o di categoria.

1. Sapere per capire
La tremenda scossa sismica della crisi finanziaria sta scaricando le sue destabilizzanti onde d’urto anche attorno all’epicentro riminese. Ecco alcuni dati relativi alla nostra situazione locale. Negli ultimi tre mesi del 2008 il ricorso alla cassa integrazione ha registrato un’impennata del 541%, un dato superiore alla crescita media nazionale, certificata dall’Istat al 525%. Le aziende che stanno utilizzando la cassa integrazione sono 56, per un totale di 1641 dipendenti. In un mondo lavorativo drammaticamente terremotato, chi per primo rischia l’esclusione sono quelle categorie meno tutelate, come i giovani precari, gli immigrati, i lavoratori a bassa professionalità, le donne, gli artigiani che lavorano per le grosse aziende, i piccoli commercianti. In base a dati forniti dall’Osservatorio della Caritas Diocesana, nel primo trimestre del 2009, sono stati serviti 1.500 pasti in più, rispetto allo stesso periodo del 2008, di cui il 30% per italiani. E il fondo della nostra Caritas “Famiglie insieme” ha registrato un incremento del 20% delle richieste di aiuto. Non è giusto che a pagare i prezzi salatissimi della crisi in atto siano i più poveri e tutti coloro – comprese varie aziende – che non ne hanno certamente la responsabilità. Sì, per amore del mio popolo, non tacerò, e ripeterò forte: non è giusto!

A livello nazionale, secondo dati Inps, la cassa integrazione ordinaria nel primo trimestre 2009 è cresciuta del 589% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, e nel solo mese di marzo l’aumento è stato del 925% rispetto al marzo ’08.
Peraltro non possiamo non interessarci di quanto sta avvenendo a livello mondiale: 800milioni di esseri umani vivono con meno di due dollari al giorno; 40milioni ogni anno muoiono per fame o per denutrizione. È come se ogni giorno dai 400 ai 500 Jumbo carichi di persone precipitassero sulla terra senza superstiti. Nel 2003 i paesi poveri hanno versato a quelli ricchi 2mila miliardi di dollari per pagare i debiti, ingigantiti dal computo degli interessi. I paesi ricchi invece hanno destinato allo sviluppo dei paesi poveri 56miliardi di dollari! Questa situazione, così pesantemente dissestata e compromessa, ora non si aggraverà ulteriormente?

2. Capire per cambiare
Del brutale, catastrofico terremoto finanziario sarebbe da irresponsabili minimizzare la portata. Non ho la competenza di analizzarne le cause prossime e remote. Sono però convinto che, per registrarne i sussulti profondi, quelli provocati dalle faglie del sottosuolo, il sismografo degli economisti non ci basti. Ci occorre l’audacia dei profeti. In senso biblico i profeti non sono tanto degli indovini che possiedono in anticipo il dvd del futuro; sono dei sapienti che, nel buio generalizzato e diffuso, si lasciano orientare dalla stella polare della parola di Dio. E questa parola ci fa capire qual è la radice cancerogena della devastante metastasi in atto: è l’avarizia, la vogliosa, ingorda primogenita della superbia, la madre di tutti i vizi. L’avarizia ha un doppio nome: non è solo la paura ossessiva di perdere ciò che già si ha (“taccagneria”); è anche la voglia possessiva e vorace di avere ancora di più, di volere sempre di più, e in questo caso si chiama “avidità”, ma si potrebbe chiamare pure “cupidigia”, parente stretta, anche etimologicamente, della concupiscenza. È proprio “la cupidigia alla radice della crisi economica mondiale”: lo ha riconosciuto il Papa all’udienza generale del 23 aprile u.s. Questa “avarizia insaziabile” – resa nella nuova trad. CEI con “cupidigia” – viene definita da Paolo “idolatria” (Col 3,5).
Il miraggio dell’idolatria è maliardo e malefico: spinge a riempire il vuoto con l’effimero, confondendo il necessario con il superfluo, scambiando l’indispensabile con l’inutile. Ecco cosa è successo: ci siamo lasciati intrappolare nella spirale perversa: produrre per consumare, consumare per rottamare, rottamare per poter produrre ancora… E il consumismo sfrenato ci ha portato a una desertificazione spirituale di proporzioni disastrose: vedi le pandemie della droga, dell’alcool, delle nevrosi, psicosi, delle divisioni, conflitti ecc. A Rimini nei mesi scorsi si è registrato un aumento vertiginoso nell’acquisto di tranquillanti per i giovanissimi: il “divertimentificio” si va tramutando in “deprimentificio”? Il monitoraggio del panorama dà risultati angoscianti: la società è diventata obesa, accusa cardiopatie acute. Ci sta morendo l’anima per asfissia. È sempre così: l’insaziabile bulimia dell’avere porta fatalmente alla letale anoressia dell’essere.
All’indomani della funesta crisi economica del ’29, il filosofo cattolico Emmanuel Mounier denunciava il sisma morale che l’aveva prodotta: lo “sganciamento” dell’economia dall’etica, la precedenza data ai consumi sui bisogni, e dei bisogni materiali su quelli spirituali. Negli anni successivi, si è registrata la ripresa del dopo-guerra, poi il boom economico degli anni ’60, quindi la crisi energetica degli anni ’70. Poi ancora abbiamo tremato per la bolla speculativa dei mercati asiatici negli anni ’90. Comunque si è puntualmente continuato a percorrere a velocità sempre più folle la stessa strada. Non si è mai fatta una seria, radicale inversione ad U: i ricchi sono diventati sempre di meno e sempre più ricchi, mentre i poveri sono diventati sempre di più e sempre più poveri. E così si è imboccato il tunnel fatale che ci ha portato al precipizio: il capitale ha finito per schiacciare il lavoro; la borsa ha sostituito l’economia virtuale a quella reale, col risultato che la rendita si è “mangiata” fette consistenti di profitto; il gioco clandestino ha gettato sul lastrico intere famiglie; il cappio dell’usura ha strozzato i disperati.
La crisi finanziaria è la deflagrazione all’ennesima potenza di una miscela esplosiva preparata da tempo. Ci dobbiamo domandare: come è stato possibile che bastasse smanettare su un computer per spostare capitali stratosferici, e condannare alla fame intere popolazioni? Chi ha consentito a che si facesse mercato di tutto: del corpo di bambini, di ragazze, di organi vitali, della forza lavoro? E adesso come mettere finalmente lo stop a queste micidiali reazioni a catena?

3. Cambiare per vivere e far vivere
È possibile uscire dal tunnel della crisi? È una domanda che ci percuote tutti. Vorrei rispondere letteralmente con due parole, anzi tre: Sobrietà. Solidarietà. Speranza. Sono le tre “grandi S” per un cambiamento necessario, possibile, efficace: mai la vita è così pienamente umana come quando si costruisce con i poveri la civiltà dell’amore.

a. La prima parola è sobrietà.
Dobbiamo convincerci: l’illusione che più si ha, più si è felici, va smascherata. Non è vero che più si consuma, più si è appagati. È vero il contrario: oltre una certa soglia, la sovrabbondanza di beni materiali crea ansia e infelicità. È lo stress dell’inappagamento. La costituzione degli USA riconosce il diritto di ogni cittadino alla felicità. Ma nel diagramma che statisticamente rappresenta il paradosso della felicità, al di là di un certo livello del reddito pro-capite, ulteriori aumenti di quest’ultimo diminuiscono, anziché aumentare, l’indice aggregato della felicità media. Oggi, sappiamo perché: sono i beni relazionali, cioè la qualità delle relazioni interpersonali in famiglia, nei luoghi di lavoro, nella società civile, ad aumentare la nostra felicità. Non certo i beni materiali che, al più, ci forniscono utilità. Lo si vede molto bene nei bambini che, fin nei primi anni di vita non cercano tanto i giocattoli, quanto le relazioni: con i genitori, i fratelli, i compagni.

Da ormai ben 29 anni il Campo Lavoro Missionario è una piccola grande scuola di fraternità. Al di là del risultato in termini economici, il messaggio va raccolto e rilanciato. Ho letto sui cappellini degli oltre milleduecento volontari lo slogan di quest’anno: “Cambia tu, per cambiare il mondo”. Potremmo tradurre: “Vogliamo uscire dalla crisi? Cambiamo la vita!”.

I genitori stiano sereni: no, la predica no! Debbo però porre una domanda: non è vero che i nostri ragazzi sono abituati troppo spesso a ricevere una carta di credito in regalo, senza che siano stati educati seriamente a valori come il sacrificio, la gratuità, il risparmio? È chiaro che questa educazione non si può fare a parole, ma sempre e soprattutto con fatti di vita. Così, l’esame di coscienza si allunga: come è possibile educare i nostri figli con la macchina che non ci serve, con la seconda casa che non ci serve, con la marea di cose che non ci servono, che rischiano anzi di sommergerci e di non farci più vedere uno spiraglio di cielo?
La misura della sobrietà si stabilisce con alcuni criteri irrinunciabili: il primo è la preferenza del bene di tutti al lusso di pochi e alla miseria di molti. Un altro criterio è quello della sostenibilità del tenore di vita, in modo da assicurare una esistenza dignitosa ai più poveri del mondo e alle generazioni future.
Faremmo però del moralismo ipocrita se non ci interrogassimo sulla gestione dei nostri bilanci personali e comunitari, sulle spese di costruzione e ristrutturazione delle nostre strutture (chiese, oratori, canoniche), sullo stile con cui vengono organizzati i nostri eventi (sagre, feste, commemorazioni ecc.).

b. La seconda parola per la ricostruzione morale e sociale è solidarietà.
Mi colpisce sempre ripercorrere il tratto di strada dall’Antico al Nuovo Testamento in fatto di attenzione ai poveri. Nel libro del Deuteronomio Dio aveva stabilito il criterio che regola l’uso dei beni da lui creati: “Non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (15,4). La prima comunità cristiana ha attuato alla lettera il comando della Bibbia: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un’anima sola, e nessuno diceva sua proprietà ciò che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… e veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno… Nessuno era fra loro bisognoso” (Atti 4,32-35). Dall’esempio luminoso di Cristo – il quale “da ricco che era, si è fatto povero” per noi – s. Paolo ne ricava una limpida lezione di fraternità: “Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza” (2Cor 8,13).

Si tenga presente che la solidarietà, oggi, non consiste tanto nella ridistribuzione di quel che si ha, quanto piuttosto nell’impegno ad innovare, ad escogitare nuovi lavori e nuove opportunità di lavoro per i precari. Non si può pensare la solidarietà solo in chiave distributiva: la solidarietà deve essere innanzitutto creativa. Eppure, già nel 1300 il pensiero francescano affermava: “L’elemosina aiuta a sopravvivere, non a vivere. Perché vivere è produrre, e l’elemosina non aiuta a produrre”. Luigi Einaudi, cattolico, economista e grande uomo politico, nel 1944 scrisse: “Accanto agli uomini che concepiscono la vita come godimento individuale, vi sono altri uomini i quali, mossi da sentimenti diversi, hanno la vocazione della costruzione. Forse in nessuna opera storica tale vocazione fu così evidente come nel Medioevo, quando si costruiva per l’eternità”. In buona sostanza, è dagli imprenditori in prima fila che può venire la spinta decisiva alla fuoriuscita dalla crisi. Ma nessuno può scagliare la prima pietra. Faccio pertanto appello a tutti – imprenditori, politici, sindacati, lavoratori – perché si crei uno spirito di grande solidarietà, in modo da affrontare questo pericoloso tratto di strada senza che nessuno debba sentirsi solo e debba rischiare di non avere un futuro veramente “equo e solidale”.

c. Dobbiamo anche osare la virtù dei tempi difficili: la speranza.
Senza la bombola di ossigeno di questa virtù sempre più rara e più preziosa, non ce la faremo ad uscire dal tunnel della crisi.
Sì, nonostante tutto, noi cristiani speriamo.
E speriamo non perché le cose vadano bene, ma perché Dio ci vuole bene e ci vuole felici, ci offre la reale possibilità di superare il male e di raggiungere il bene, e quindi di uscire anche da questa crisi.
Noi speriamo perché il Signore ha riscattato l’uomo a carissimo prezzo, a prezzo del suo sangue.
Noi speriamo perché vocaboli come egoismo, male, peccato, anche se segnano ancora, e spesso drammaticamente, il nostro cammino, non saranno però mai abbinati alla parola “fine” della storia.
Noi speriamo perché, senza illuderci che siamo o saremo in grado un giorno di costruire un paradiso artificiale in terra o sulla luna, possiamo però costruire un mondo migliore.
Noi speriamo anche per chi non condivide le motivazioni che fondano la nostra speranza, perché siamo certi che le convinzioni morali che ne discendono costituiscono un punto di incontro tra i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà.
Sì, noi speriamo, perché crediamo e amiamo anche quelli che non sperano.
Carissimi, possiamo proseguire questo nostro dialogo? Me lo auguro di cuore.
Vi assicuro la mia preghiera e vi saluto con affetto

+ Francesco Lambiasi