La stagione di Bolzano inaugurata dall’insolito accostamento tra Pierrot lunaire di Schönberg e Gianni Schicchi di Puccini
BOLZANO, 9 novembre 2024 – Messo in ombra dal centenario pucciniano, festeggiato ovunque con grande risalto mediatico, un altro grande anniversario del 2024, quello di Schönberg (di cui ricorrono i centocinquanta anni dalla nascita), è passato quasi sotto silenzio. Almeno in Italia.
Accostando i due compositori in un insolito dittico, la serata inaugurale della stagione d’opera di Bolzano ha celebrato entrambi, abbinando Pierrot lunaire, composto nel 1912 e concepito come ‘opera da camera’, al capolavoro comico Gianni Schicchi, terzo pannello del Trittico pucciniano (1918). Un confronto, dunque, molto stimolante tra due lavori nati a poca distanza di tempo ma realizzati da due musicisti agli antipodi. Puccini chiude la grande stagione del melodramma ottocentesco, dominata dall’opera italiana e dove la vocalità aveva un primato indiscusso. Schönberg apre invece un periodo radicalmente diverso, proprio a partire dal rapporto tra voce e musica, introducendo la Sprechstimme (voce parlante): una declamazione che non sfocia nel canto vero e proprio, ma che pur essendo legata ancora a note di altezza precisa si limita a sfiorarle appena.
Non era facile trovare una liaison des scènes tra questi due titoli: tuttavia Valentina Carrasco ha ideato un’efficace soluzione per il suo spettacolo. Da tener conto che, nel caso di Schönberg, non si ha a che fare con un’opera vera e propria, bensì con un ciclo liederistico articolato su «tre volte sette poesie» del belga Albert Giraud (utilizzate però dal compositore in traduzione tedesca), ispirato alla maschera di Pierrot. Con l’ausilio delle scene e costumi di Mauro Tinti, e soprattutto delle luci di Giuseppe Di Iorio, la regista immagina un atelier da pittore, immerso in una dimensione atemporale, dove fra le tele appoggiate sui cavalletti – ricoperte di candidi drappi e che a poco a poco svelano i quadri – si aggira la cantante, vista come una sorta di musa. Al di là delle intenzioni di Schönberg la regia inserisce la presenza di un pittore (lo stesso cantante che interpreterà il protagonista nello Schicchi) e fa comparire fugacemente una Colombina strizzata in un abito cubista (il soprano che poi sarà Lauretta): figure pressoché mute.
Con un salto temporale di qualche secolo il sipario si apre poi sui personaggi di Gianni Schicchi, plasticamente immobili come i santi di un trittico da altare trecentesco, in accordo con l’epoca in cui è ambientato il libretto di Giovacchino Forzano. La regia, che scandisce l’intera vicenda con numerose trovate comiche – forse anche troppe – si sbizzarrisce in numerose citazioni iconografiche, italiane e non solo (non mancano espliciti riferimenti a David e persino Mondrian, a conclusione dello spettacolo): materializzazioni di quei dipinti fuoriusciti dalla bottega o, più probabilmente, dalla mente del pittore.
Ancor meno facile individuare un legame tra due autori così diversi sul versante musicale. Michele Gamba ha diretto Schönberg con chiarezza d’intenti e sicurezza, trovando una solida sponda nell’Orchestra Haydn, assottigliata a soli otto strumenti, che si raggruppano seguendo trame sempre diverse. Alda Caiello, la Sprechstimme in questione, poteva contare sulla sua lunga esperienza con questa partitura: si è trovata dunque a proprio agio con la scrittura espressionista che caratterizza la dimensione onirica del Pierrot lunaire, alternando i momenti di allucinazione agli incubi.
Gamba ha poi impresso un andamento vivace e spedito all’atto unico pucciniano, privilegiandone gli aspetti di smaccata comicità rispetto ai risvolti noir. Tra i numerosi personaggi svettavano il Rinuccio del tenore Antonio Mandrillo, per la facilità dell’emissione e lo squillo evidenti nell’aria Firenze è come un albero fiorito, ed Enkelejda Shkoza, una esuberante Zita, sostenuta da un ragguardevole peso vocale e dal bel colore contraltile. Nei panni di Lauretta, la giovane Sara Cortolezzis ha cantato in modo aggraziato la sua aria O mio babbino caro. Valido anche l’altro soprano Francesca Maionchi nella parte di Nella e spiritoso, con la sua tiara da Sant’Agostino, il solido basso Renzo Ran come Simone. Fra i personaggi meno a fuoco, vale la pena ricordare Mattia Rossi, nel duplice ruolo di medico e notaio. Peccato solo per il protagonista, Bruno Taddia, dall’emissione troppo fioca soprattutto nel registro grave: si tratta tuttavia di un ottimo attore – come già detto, era stato il pittore in Pierrot – ed è riuscito a simulare in modo efficace il defunto Buoso Donati. Certo, rendere giustizia al gigantesco personaggio delineato dalla musica di Puccini è ben altra cosa.
Giulia Vannoni