dalla nostra inviata
Un volo “internazionale” in senso letterale. Il popolo dei vaticanisti di radio, tv, agenzie, carta stampata da tutto il mondo parte da Roma alla volta di Amman per seguire e raccontare il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, che vede una prima tappa, di ben tre giorni, proprio in Giordania.
Un vaticanista…cattolichinoa
Tra loro c’è anche un riminese o, meglio, un cattolichino: Stefano Maria Paci, il vaticanista di Sky TG24. Gli chiediamo un’analisi delle attese per la visita del Papa. «È un viaggio che Benedetto XVI ha molto voluto, più volte rimandato in attesa di condizioni politiche che potessero favorirlo. Alla fine, è stato fatto anche in un periodo difficile (pensiamo alle polemiche con gli ebrei per la questione dei vescovi negazionisti e alle ferite ancora aperte della guerra di Gaza) e ciò lo rende il viaggio più delicato di papa Ratzinger» ci dice. «Benedetto XVI – prosegue – ha sempre voluto caratterizzarlo come un viaggio religioso, ma la componente politica è ugualmente importante. Il Papa dovrà stare attento a non cadere in trappole mediatiche: tutti cercheranno di tirargli la giacchetta, anzi la veste bianca, dalla loro parte e lui dovrà evitare di mostrare troppa simpatia per i palestinesi o per gli israeliani» conclude.
36 volte al metal-detector
Atterriamo in un aeroporto secondario della capitale Amman, quasi a conduzione familiare. E si inizia subito a fare la vita da inviata vaticanista, anche se sei l’ultima arrivata. Ti alzi prestissimo al mattino. Un giro in città per capire come la gente vive l’attesa del Papa. Rinunci ad andarlo a vedere per chiudere il servizio. Passi dal metal detector 36 volte in una giornata: ogni volta che devi entrare in albergo o in sala stampa.
Quando l’aereo papale finalmente atterra qualcuno applaude in sala stampa. Conosci tanta umanità, chiusa in un centro stampa: ci sono i “giornalai piccoli piccoli”, che “se la credono” e s’atteggiano alla grande. Ci sono invece quelli bravi e importanti ma altrettanto gentili e disponibili. Finisci il tuo pezzetto in tempo, lo monti (non tu, naturalmente, ma la tua operatrice!) e pensi di aver tempo per un riposino. Invece la tecnologia si accanisce contro di te e ci metti quattro ore per inviare il servizio in Italia. Però ti consoli perché vedi che grandi tv hanno i tuoi stessi problemi. Poi cena in abito “da pinguino” (ma neanche tanto: i giornalisti possono permettersi tutto) e si socializza anche, il che non guasta. Avresti 250 mail da inviare ma… domattina sveglia alle 5 quindi tocca andare a dormire.
Amman e l’attesa del Papa
Solo un attimo, dopo una giornata frenetica, per renderti conto che sei ad Amman. Case, nuove e vecchie, di gran lusso o diroccate, tutte rigorosamente in pietra bianca. Tanti cantieri aperti, per una città che in 90 anni è passata da 5mila a 3 milioni di abitanti (giordani ma anche molti profughi palestinesi e iracheni). Ovunque immagini dell’amato re Abdallah II, ritratto nelle vesti più diverse, da solo o con la bella moglie Ranja e i quattro figli. Ma anche foto del papa insieme al re. E poi bandiere di Giordania e Vaticano. Il richiamo alla preghiera del muezzin e i minareti che alla sera vengono illuminati con luci fluorescenti. Negozi aperti a tutte le ore, anche in zone non turistiche: «Qui i negozi non hanno orari» ci dice la guida. Ragazzi che giocano a pallone per strada in mezzo al traffico. Grandi opere inutili: come la stazione dei bus costruita in una posizione ormai inservibile per una città che cresce a vista d’occhio. Una coppia di sposi cristiani balla circondata dagli invitati e da un gruppo di suonatori in abiti militari tradizionali. Il giovedì è il giorno prediletto dagli sposi perché qui, anche se sei cristiano, è comunque la vigilia del giorno di festa.
cristiani al 4%
In Giordania, anche il 25 dicembre da qualche anno è festa: non solo per il 4% di cristiani ma da qualche anno anche per il 96% di musulmani. Le donne col capo o col volto coperto e quelle invitate al matrimonio, “scoperte” e in abiti da festa come in una qualunque cerimonia occidentale. Una moschea e affianco due chiese: prove di convivenza in un Paese in cui il dialogo tra popoli e religioni è un’esperienza quotidiana. Un messaggio di dialogo è ciò che tutta la popolazione giordana si attende dalla visita del Papa. E “dialogo” è la prima parola che ci evocano le giornate giordane al seguito di Benedetto XVI.
La visita alla grande moschea
La visita, in un clima di particolare cordialità, alla moschea di Al Hussein Bin Talal, che con i suoi 5.500 posti è la più grande di tutta la Giordania. Benedetto XVI invita cristiani e musulmani a fare della religione un mezzo di unità e armonia e insiste sulla promozione della libertà religiosa, una libertà che significa innanzitutto il diritto per le minoranze di accesso al lavoro e alla vita civile. Quando parla di minoranze, Benedetto XVI pensa sicuramente a quel 4% di cristiani che vivono in Giordania, una comunità piccola ma antica, figlia della prima Chiesa di Gerusalemme. Non sono perseguitati e convivono pacificamente con la maggioranza musulmana.
In dialogo nella vita
«In Giordania non abbiamo bisogno di dialogo intellettuale ma dobbiamo dimostrare il dialogo di vita» ci dice padre Rifat Bader, portavoce della Chiesa cattolica giordana. «Come ha ricordato anche il Papa, dobbiamo cooperare per il bene della società». Non mancano le difficoltà per la Chiesa di questo Paese, prima tra tutte la presenza di un gran numero di cristiani tra i profughi palestinesi e iracheni: i primi accolti già dalla prima guerra contro Israele tra il ’47 e il ’48, i secondi (si parla di 70mila cristiani tra i 300mila profughi iracheni) fuggiti dalle due guerre del Golfo. «Il problema non è che vengono qui ma che lo fanno per scappare da situazioni di conflitto» ci spiega ancora padre Bader. «La Giordania è un Paese ospitale e noi siamo felici che la nostra comunità religiosa sia formata da genti di diverse nazioni. Avere tutte queste nazionalità ci permette di dire che la Chiesa è ancora vivente e universale». Le condizioni di vita dei profughi, però, sono particolarmente difficili e la Chiesa cattolica fa molto per loro. «Abbiamo creato istituzioni speciali per aiutare questi fratelli nella fede e anche i fratelli non cristiani. La Caritas, ad esempio, è in prima linea nel campo della salute e dell’educazione».
La preghiera sul Monte Nebo
È stata un’occasione di dialogo tra religioni il viaggio di Benedetto XVI in Giordania ma prima ancora il Papa è venuto in questo Paese da pellegrino. Perché anche la Giordania, come Israele e Palestina è “terra santa”. Per questo motivo, “preghiera” è la seconda parola che portiamo con noi dalle giornate giordane. Una preghiera che ha avuto come luogo simbolo il Monte Nebo, con la vista mozzafiato su tutta la Terra Santa, dal Mar Morto a Gerico fino a Gerusalemme. Come Giovanni Paolo II nel 2000, Benedetto XVI si è raccolto in preghiera nel luogo da cui Dio mostrò a Mosè la terra Promessa. Mosè però poi non poté mai entrarvi perché proprio sul monte Nebo morì. In quel luogo, nel IV secolo dopo Cristo fu costruita una basilica, le cui rovine sono venute alla luce soprattutto grazie agli archeologi francescani. Sul monte del Memoriale di Mosè, i francescani della Custodia di Terra Santa sono presenti fin venuta di San Francesco, intorno al 1220. «Il Papa è il rappresentante del Cristo ed è venuto qui per darci la pace – ci dice emozionato padre Pietro, frate cappuccino della comunità del Monte Nebo. – Noi oggi vogliamo dirgli che siamo con lui per la pace e per l’amore nel mondo intero».
“Coraggio, Chiesa giordana!”
Mentre in pullman ci avviciniamo alla frontiera giordana da cui passeremo in Israele, portiamo con noi le parole del Papa durante la Messa nello stadio di Amman: «Coraggio, Chiesa giordana! La fedeltà alle vostre radici cristiane e alla missione della Chiesa in Terra Santa, vi chiedono il coraggio del dialogo con gli altri cristiani a servizio del Vangelo e nella solidarietà con il povero, lo sfollato e le vittime di profonde tragedie umane; il coraggio di costruire nuovi ponti con persone di diverse religioni e culture e così arricchire il tessuto della società».
Ada Serra