Con Bianca e Falliero si è inaugurata la quarantacinquesima edizione del Rossini Opera Festival all’Auditorium Scavolini
PESARO, 7 agosto 2024 – Dopo aver firmato appena due mesi prima un capolavoro come La donna del lago per Napoli (dove però Rossini azzardava sperimentazioni che altrove non avrebbe mai tentato), nel 1819, alla Scala, il compositore sembra innestare con Bianca e Falliero la marcia indietro. Neppure la collaborazione con uno fra i massimi librettisti, Felice Romani, riesce a cancellare la sensazione di opera un po’ convenzionale, dove la cifra drammatica non appare sempre ben definita.
Titolo inaugurale della quarantacinquesima edizione del ROF, allestito nel rinato Auditorium Scavolini, Bianca e Falliero avrebbe avuto bisogno di uno spettacolo dove ognuna delle parti osasse di più. A cominciare dalla bacchetta di Roberto Abbado, che peraltro ha diretto con eleganza e precisione l’ottima Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, avendo cura di sottolineare le diverse componenti stilistiche ed espressive della partitura: dai retaggi di un passato prossimo dal sapore neoclassico ai momenti patetici quasi preromantici (bellissimo l’accompagnamento al magnifico duetto tra i due protagonisti, Sappi che un dio crudele) che convivono con schemi tipici del Rossini comico. Un’esecuzione così attenta al frastagliamento dei materiali, però, necessitava di una maggiore direzionalità: Bianca e Falliero sembra autorizzare – psicologicamente e stilisticamente – molti possibili approdi e forse, da parte del responsabile della lettura musicale, era lecito aspettarsi una scelta di campo più definita.
Un tempo a Pesaro gli spettacoli puntavano soprattutto sul carisma di grandi interpreti vocali, che in Rossini sono sempre i veri responsabili della definizione dei personaggi: vedi la coppia Ricciarelli-Horne del 1986 o quella Cuberli-Dupuy del 1989, entrambe impreziosite dalla vicinanza di Chris Merritt. Oggi è forse impossibile raggiungere certi vertici, eppure il cast di questo nuovo allestimento si sarebbe potuto concedere qualche libertà in più. In locandina, infatti, figuravano alcuni autentici fuoriclasse, a cominciare dal soprano Jessica Pratt che, come sempre, canta benissimo sgranando ogni nota in modo impeccabile ed esibendosi in raffinate variazioni: la sua Bianca qualche puntatura sopracuta avrebbe potuto azzardarla, anche senza attendere il rondò finale (che Rossini aveva mutuato dalla Donna del lago), quando ormai era subentrata una certa stanchezza. Altrettanto non si può chiedere al volenteroso mezzosoprano Aya Wakizono, messa a dura prova dalla pirotecnica scrittura di Falliero, eroe en travesti che richiederebbe ben altra saldezza di emissione.
Quanto all’ottimo Dmitry Korchak, che ebbe le sue prime affermazioni pesaresi come tenore contraltino, qui è alle prese con un ruolo concepito per baritenore. Supera comunque agevolmente ogni insidia musicale e traccia il profilo di Cantareno, il padre della protagonista, facendone il vero perno drammatico dell’intera opera: un uomo chiuso in una rigidità tetragona, a tratti persino violenta. Ancor più efficace il giovane basso Giorgi Manoshvili, che affronta con ottima sicurezza vocale il personaggio del promesso sposo della protagonista, Capellio, passando dagli accenti amorosi alla generosa magnanimità finale.
Il regista Jean-Louis Grinda, coadiuvato dalle scene e dai costumi diacronici firmati da Rudy Sabounghi e dal bel disegno luci di Laurent Castaingt, concepisce uno spettacolo tradizionale, con tanto d’immancabili filmati di guerra, che non si caratterizza per particolare pregnanza. L’introduzione di una figura come l’anziana cieca – forse la madre di Bianca, ridotta a ectoplasma in una società patriarcale? – non contribuisce a fornire una chiave di lettura; né la regia imprime dinamismo a un coro, come quello del Teatro Ventidio Basso (preparato da Giovanni Farina), impegnato in una serie di controscene che sembrano celare una sorta di horror vacui. Senza aggiungere qualcosa di davvero utile.
Giulia Vannoni