Scuscita l’entusiamo del pubblico il capolavoro di Rossini che ha aperto il Teatro Galli con Cecilia Bartoli protagonista d’eccezione
RIMINI, 28 ottobre 2018 – Una giornata storica per Rimini. Dopo settantacinque anni nell’edificio teatrale disegnato a metà ottocento da Luigi Poletti è tornata a riecheggiare la musica: quella di Rossini, compositore che in un secolo di programmazione – dal luglio 1857, quando il Teatro fu inaugurato, al marzo 1943, che segnò la fine di ogni sua attività – è stato il meno presente nei cartelloni.
La Cenerentola ha così inaugurato il palcoscenico del Galli, affidata a una protagonista del calibro di Cecilia Bartoli. Il mezzosoprano di famiglia riminese (il padre è nato a Vergiano), tra le più acclamate star del nostro tempo, applaudita in tutto il mondo ma che in Italia si esibisce di rado, ha proposto il capolavoro rossiniano in forma semiscenica: uno spettacolo nato lo scorso anno, in occasione del bicentenario (Cenerentola è del 1817), rodatissimo e perfetto per una festa come questa inaugurazione.
Pur trattandosi solo di una ‘mise en espace’, con l’orchestra sul palco, la regista Claudia Blersch – servendosi di pochi oggetti – non ha fatto rimpiangere l’assenza di un vero e proprio apparato scenico: si potevano ugualmente seguire le peripezie di Angelina, maltrattata da sorellastre e patrigno, fino all’happy end conclusivo. Inevitabile che tutta l’attenzione fosse concentrata sulla protagonista, capace di far rivivere i fasti delle grandi dive ottocentesche, grazie a uno scaltro uso delle colorature, gestite con grande sicurezza e musicalità, senza che nulla togliessero all’intelligibilità della parola. Accanto a lei svettava il giovane tenore Edgardo Rocha, un don Ramiro dai mezzi sostanziosi e sicuro in acuto, mentre il ruolo di Don Magnifico, il patrigno, era affidato a Carlos Chausson, basso-baritono quasi settantenne che ha saputo compensare l’inevitabile aridità vocale con la disinvoltura scenica, valorizzando quelle astuzie, come la gestione del falsetto nell’aria Sia qualunque delle figlie, d’irresistibile comicità. Altro veterano, il baritono Alessandro Corbelli, che nel corso della sua carriera ha circumnavigato i tre ruoli maschili della Cenerentola, e qui si è presentato come Dandini: nonostante una voce che ha perso la sua rotondità, la classe, per niente appannata, si avvertiva soprattutto nella linea di canto e in un’emissione sempre articolata. Nei panni di Alidoro, il filosofo deus ex machina, l’ieratico basso boliviano Josè Coca Loza, con tanto di alette da angelo. Completavano il cast, nei panni delle due sorellastre (c’era bisogno di vestirle in modo così grottesco?), Martina Jánkova, una Clorinda sicura, e Rosa Bove, ottima Tisbe dal bel colore mezzosopranile. Bravo anche il coro, che nella Cenerentola è solo maschile, proveniente dall’Opéra di Monte-Carlo e preparato da Aurelio Scotto.
L’orchestra era l’insieme monegasco Les Musiciens du Prince, nato nella primavera del 2016 (tra i suoi finanziatori c’è anche la famiglia Grimaldi) e che accompagna regolarmente la Bartoli. Il direttore Gianluca Capuano ha fatto di necessità virtù, perché alla guida di strumentisti barocchi l’orologio rossiniano viene inevitabilmente spostato indietro: il compositore di Pesaro era uno dei massimi fautori degli strumenti a fiato a pistoni, mentre qui c’erano corni naturali e persino flauti diritti, che nell’accostamento con gli archi causano inevitabili problemi d’intonazione. Il direttore si è concesso inoltre alcune di quelle licenze che scandalizzano i filologi, avallando gag musicali che la Rossini renaissance ha spazzato via, ma ancor oggi mandano in visibilio il pubblico di lingua tedesca: i singhiozzi di Cenerentola quando le impediscono di andare alla festa, il cinguettio strumentale che simula gli uccelli, qualche accordo della ‘marcia nuziale’ udibile quando Don Magnifico, perplesso per i tentennamenti del presunto Principe sulla scelta della sposa, si preoccupa chiedendosi se volesse maritarsi con me. Ma, in un’occasione festosa, sono peccati veniali: anzi, per un pubblico disabituato a Rossini rappresentano solo una fonte di divertimento in più.
Entusiasta il numeroso pubblico, elegante come a Rimini non capita mai, che ha applaudito a lungo la Bartoli, affacciatasi sulla piazza anche per ringraziare le numerosissime persone che seguivano dall’esterno sul maxischermo.
L’orgoglio e la soddisfazione per il teatro ritrovato era leggibile sui volti di tutti: non solo perché l’edificio del Poletti, archistar del suo tempo, esponente fra i massimi del purismo neoclassicista, è magnifico, ma questa inaugurazione sembra aver spazzato via definitivamente gli scontri fra chi auspicava un restauro con sala moderna e i sostenitori “del com’era e dov’era”. Prima dell’inizio dello spettacolo è salito sul palcoscenico Luciano Bagli, un signore nato proprio il 28 dicembre del 1943, giorno del bombardamento che ha fatto crollare gran parte dell’edificio del Teatro, uccidendo anche tanti riminesi innocenti. Poi ha preso la parola il sindaco Andrea Gnassi: oltre a esprimere la sua soddisfazione di primo cittadino per aver portato a termine un’impresa così impegnativa, ha riportato correttamente l’attenzione sulla vera origine delle difficoltà di ricostruzione, che le polemiche degli ultimi decenni avevano rischiato di far passare in sordina: gli effetti di una guerra devastante. Per Rimini e per tutti.
Giulia Vannoni