Per i piccoli Comuni la strada delle fusioni sembra essere, se non obbligata, vivamente consigliata. Le fusioni del resto sono incoraggiate dalle leggi nazionali e regionali, sono finanziate quando si realizzano, vengono “protette” dagli enti superiori che agevolano in ogni modo il passaggio verso entità nuove, e sono esonerate per anni dal vincolo del patto di stabilità. Non è poco. Anzi, è tanto. E volendo essere più precisi le alternative possono essere pericolose, dai percorsi molto più complicati, povere o del tutto prive di incentivi, e senza il vantaggio della sospensione del patto di stabilità.
La certezza della fusione. Non si tratta di una possibilità ipotetica ma di una certezza: prima o poi i mini Comuni dovranno fondersi o avranno vita difficile. Del resto fin dall’Unità d’Italia si è lavorato per ridurre l’eccessivo frazionamento amministrativo con l’obiettivo di diminuire la spesa pubblica locale. Coinvolti in quest’opera di accorpamento ci sono oltre 5.500 Comuni con meno di 5mila abitanti, vale a dire il 70% degli 8mila enti locali di tutta la Penisola.
Dopo le Unioni… Da oltre un ventennio la legislazione nazionale, accanto alle fusioni e alla costituzione di comunità montane, ha promosso anche le unioni tra più Comuni dello stesso bacino, una soluzione che secondo le prime leggi in materia doveva agevolare le fusioni (entro 10 anni) iniziando dalla gestione collettiva di alcuni servizi. Proprio a quel periodo, la metà degli anni Novanta, risale la nascita dell’Unione dei Comuni della Valconca, una tra le prime nell’intera regione. Quell’esperienza nacque con tante belle speranze che, però, vennero subito tarpate dagli amministratori locali che si mostrarono più che tiepidi sulla prospettiva di vedere annullarsi le autonomie dei loro nove Comuni per farne nascere uno unico, per di più con sede a Morciano. Il “pericolo” venne scongiurato perché quell’esperimento rientrò in tutta Italia, percorsa dalle stesse perplessità tanto che si arrivò a stabilire per legge che le unioni non dovevano necessariamente portare a fusioni.
I nuovi istituti. Ma il numero dei Comuni non diminuiva, così nel 2000 si tentò la via dell’obbligo di accorpamento delle sei funzioni essenziali dei Municipi per quelli che avevano meno di 5mila abitanti (3mila se in comunità montane come erano quelli dell’alta Valmarecchia ancora nelle Marche). Gli istituti previsti per la gestione ottimale dei servizi erano: le convenzioni, firmate dai Comuni per la gestione di specifiche funzioni, volontarie, senza creare nuove strutture; le unioni, da creare appositamente, dotate di proprie strutture e statuto, emanazione degli organi dei Comuni associati che vi devolvono parte delle loro risorse; i consorzi, come le unioni hanno autonome strutture ma in larga parte sono svincolati nella gestione dagli enti soci, anche finanziariamente. Non avendo, però, il legislatore terminato l’iter, come si dice in questi casi, l’obbligo è rimasto praticamente lettera morta.
Le nuove leggi. Almeno fino l’avvio di questo decennio quando, con una serie di norme, si è tornati a ribadire l’obbligo di accorpare le famose funzioni e i servizi ritenuti essenziali per i piccoli Comuni. Le prime tra queste leggi, la 111 e la 148 del 2011, toglievano una serie di vincoli a quelle procedure che avevano rallentato l’applicazione delle precedenti regole, ma rendevano obbligatorio l’accorpamento di due tra i servizi essenziali entro l’inizio dei tre anni successivi. Quindi entro il primo gennaio 2014 (ma la 148 anticipava a fine 2012 il completamento del percorso) e così i “comunelli” avrebbero dovuto mettere insieme i loro servizi essenziali con i vicini. Lo strumento da usare era differenziato, però, tra i piccolissimi Comuni, quelli sotto i mille abitanti, che dovevano toglierseli definitivamente e fonderli, mentre quelli tra i mille e i 5mila residenti potevano farlo nelle forme di convenzioni o di unioni. La possibilità di gestire funzioni e servizi essenziali (nel frattempo aumentate di numero da 6 a 10) in convenzione o in unione, viene ribadita nell’aprile del 2014 con la legge 56, la cosiddetta “Legge Del Rio” che chiude le Provincie. Tutto questo nella logica di scoraggiare le alternative alla fusione: non è meglio sposarsi-fondersi tra Comuni vicini e simili, piuttosto che cercare strade contorte di convivenze provvisorie e poco agevolate, di contratti onerosi per far nascere società-consorzi?
Chi preferisce le convenzioni. La distinzione tra Comuni minimi e piccoli comporterebbe differenti obblighi, e su questo ad esempio aveva puntato la precedente maggioranza di Saludecio, e lo fa sostanzialmente l’attuale di Montefiore per non sentirsi oggetto di obblighi. Meglio le convenzioni che le fusioni: sono più libere, più semplici da far nascere e da sciogliere, con possibilità di rivolgersi a diversi altri enti, anche più di uno e perfino senza continuità territoriale. Convenzioni che, però, sono senza incentivi da Stato e Regione e sempre soggette alla contrattazione tra enti che possono avere pesi e forze differenti, e quindi penalizzare i minori.
Verso la fusione d’autorità? Questo dibattito può mantenersi ancora aperto perché ognuna delle leggi che hanno affrontato la materia non ha ancora reso davvero obbligatorio quanto si cerca di fare da tempo immemore, e che hanno fatto diversi altri stati europei, cioè la soppressione dei piccoli Comuni, realizzata ad esempio dalla Germania in una sola notte. La mancanza di sostanziale obbligatorietà non è detto, però, che rimanga ancora a lungo, la tendenza è inequivocabile e prima o poi si arriverà all’obiettivo. Lo fanno comprendere alcune recenti iniziative parlamentari che rendono esplicita la fusione d’autorità dei Comuni con meno di 5mila abitanti, a prescindere dalla loro volontà e anche dall’accorpamento o meno delle funzioni essenziali. Anche la Regione continua a legiferare in questa direzione, mettendo in campo risorse finanziarie per le fusioni e in misura minore per le unioni ma non per le convenzioni, spingendosi in avanti, come prevede una recente proposta di legge per permettere le fusioni anche tra Comuni che non sono confinanti tra loro.
Oltre agli obblighi di legge e agli incentivi in denaro (aumentati nell’ultima legge di stabilità) si mette in campo anche un altro argomento per spingere alle fusioni: la necessità di un equilibrio tra “poteri” pubblici sul territorio. In una recente proposta parlamentare si scrive che “la fusione dei piccoli Comuni diventa pertanto ineludibile per l’esercizio di funzioni che erano in capo alle Provincie e che l’eccessiva frammentazione amministrativa in piccoli Comuni finirebbe per ricondurre in capo alle Regioni, determinando il rischio di un neo-centralismo di tipo regionale” (proposta DDL n° 3420 del 16.01.2016).
Infatti se i piccoli Comuni rimangono tali, oltre a non poter gestire con scale ottimali i servizi per i loro cittadini, quanto conteranno rispetto ai vicini più grandi quando si dovranno rapportare con la Regione ora che non c’è più l’ente intermedio provinciale? Forse non basteranno neppure gli ambiti ottimali che stanno nascendo per dare voce ai mini Municipi e sopperire al compito di programmazione territoriale che avevano le Provincie!
Maurizio Casadei