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Comincio a vivere: oggi!

Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare. Alla giovane riminese Marika Ricci è stato diagnosticato un tumore al seno a soli 23 anni. Oggi ne ha 28 e se può dire di avere estirpato il male che abitava nelle sue cellule è soprattutto grazie alla sua determinazione e buon umore. Il suo è un messaggio di speranza per le donne afflitte dallo stesso male, ma anche per quanti, a volte, lasciano che la fiamma della speranza si estingua.

Marika, come stai oggi?
“Dopo 5 anni, la chemioterapia, la doppia mastectomia e 12 interventi chirurgici direi bene. Non ho più traccia del male. Nel mio caso si è trattato di tumore al seno da Brca1 ereditato probabilmente da mia nonna paterna, di cui è morta. Si tratta di un gene impazzito, lo stesso reso celebre da Angelina Jolie. Anch’io mi sono tolta la mammella (per ora) sana, oltre a quella già malata; così ho potuto ridurre il rischio di una nuova malattia dall’85 al 5%. E ho anche già deciso di farmi togliere le ovaie dopo il primo figlio perché incorrono nello stesso rischio”.

Una scelta drastica. C’è chi la critica…
“Io so solo che non voglio più passare quello che ho passato! La domanda più ricorrente è: perché togli un organo sano?, non bastano i controlli? Ma la gente non sa cosa significhi affrontare questo percorso, cosa significhi sentirsi dire hai un tumore di cui potresti morire. A differenza della Jolie, io avevo già sperimentato la malattia. Mai più!”

Ti ricordi il momento in cui ti è stata data questa triste notizia?
“Ricordo che non riuscendo a dormire la notte dopo la notizia andai a camminare, alle 5 del mattino, alla Darsena di Rimini. Oltretutto dovevo iniziare la chemioterapia con urgenza, senza aver il tempo di fare la conservazione degli ovociti, come si fa in genere dato che la terapia può rendere sterili. Per cui temevo anche di non potere avere più figli se mi fossi salvata”.

Quanto conta l’atteggiamento?
“Il carattere vuol dire tanto. C’è chi viene raggiunto dalla depressione a fine percorso, nonostante sia stato forte durante le fasi critiche perché ci si rende conto di non essere mai guariti del tutto. Si diventa ipocondriaci, anche a me è capitato. Poi però ho raggiunto un equilibrio e in questo mi ha aiutato molto la storia con il mio fidanzato che ho conosciuto proprio in questi anni difficili”.

Qual è stato il periodo più buio?
“Il dolore fisico e psicologico della chemio, mi ha reso una larva, anche se la reazione è soggettiva. Quando stavo meglio, però, uscivo il più possibile. Mettevo la bandana (non sopportavo la parrucca), andavo a ballare, a sciare, in giro in motorino… ero una pazza. <+cors>(Sorride al ricordo, ndr) <+testo>Mi è venuta fuori anche una certa dose di aggressività verso la malattia che mi ha portato a reagire. È stato un periodo di scelte definitive in generale. Sentivo di non avere tempo per le cose frivole. Sapevo che in caso di fallimento della terapia potevano essere gli ultimi mesi della mia vita. Per questo ho iniziato a vivere alla giornata, con progetti di tre mesi in tre mesi, da una visita all’altra”.

E ora?
“Li ho allungati di sei in sei: la scansione dei nuovi controlli. Con questo modello di vita in testa a volte si fa fatica a rapportarsi con le altre persone, perché non lo comprendono”.

Che rapporto hai avuto, invece, con le donne nella tua stessa situazione?
“Con loro si è instaurato un rapporto tale che mi sembra di conoscerle da sempre. E quando è capitato che qualcuna di loro morisse era davvero spiazzante: doveva essere una guerra da combattere e superare insieme, e invece… È capitato che ci lasciasse chi stava bene da diversi anni o chi aveva una diagnosi migliore della mia. Ecco perché, a volte, non ci si sente mai guariti del tutto”.

Una consapevolezza piuttosto pesante…
“Per conviverci bisogna essere molto forti. È causa di depressione in molte donne, soprattutto di mezza età, perché magari hanno pochi amici, sono state abbandonate dai mariti e persino dai figli. Bisogna convincersi a stare su con l’umore! Anche perché ne trae beneficio il sistema immunitario”.

Qual è dunque il messaggio che vuoi lanciare?
“Vivere la vita nella maniera più serena, a partire dalla malattia. Se siamo giù di morale possiamo sempre rischiare e metterci in gioco”.

Un tempo si diceva “è morto di un male incurabile”. C’è ancora imbarazzo attorno al cancro?“Sì, perché ancora non c’è una cura definitiva; perché in ogni famiglia almeno un membro ha avuto un tumore; perché le cure sono devastanti e perché molti, ancora purtroppo vengono sconfitti. È imbarazzante perché ci mette a nudo, mostrando tutta la nostra vulnerabilità”.

Molte donne si interrogano sulla loro femminilità dopo interventi così difficili. Te lo sei mai chiesto?
“Sì, ma è un problema soprattutto per quelle più mature. Noi giovani siamo più incoscienti, tendiamo a rischiare di più, mentre con la maturità si diventa più riflessivi e pudici; ciò può far chiudere in se stessi e nella malattia”.

Qual è stato il momento di maggiore sollievo?
“Quando, in una vigilia di Pasqua, il mio chirurgo mi disse con l’esame istologico finale in mano: Marika, non c’è più traccia del tumore, sei guarita. Sono stata molto fortunata perché si trattava di un tumore di 6 cm di diametro! Poi ci fu il secondo giorno più bello, quando grazie al test genetico su mia sorella poterono dire che lei non correva lo stesso rischio”.

Economicamente quanto pesa?
“Tantissimo. Tante visite private da 280 euro a volta, fisioterapia privata (perché quella pubblica ha tempi di attesa lunghissimi), la ricostruzione del seno tra Roma e Santarcangelo, i viaggi, reggiseni appositi, bandane…”.

Ad una ragazza 20enne a cui viene diagnosticata la tua stessa malattia cosa diresti?
“Di chiamarmi. (Non ci pensa su, ndr) Mi sono fatta telefonare molte volte da amiche di amici, o attraverso Facebook. Molte donne mi hanno aiutata durante la malattia, quindi mi ero ripromessa di fare lo stesso una volta superata. E quando incontro per strada una donna con la bandana le faccio toc toc, le mostro i miei capelli sorridendo e dico: non temere, ricrescono come prima”.

Le tue paure di oggi?
“Di avere una figlia femmina e trasmetterle lo stesso gene. Sarebbe un grosso dolore”.

La tua storia è stata portata come esempio ad un convegno internazionale di Padova sul tumore al seno. Come mai?
“Purtroppo il Brca1 e 2 sta colpendo sempre più giovani. C’è chi lo ha avuto in gravidanza, costretta ad abortire per iniziare la chemio. Ho conosciuto su Facebook la senologa Alberta Ferrari di Pavia e ha deciso di sensibilizzare la comunità scientifica su questa tematica anche attraverso la mia storia”.

Mirco Paganelli