Da qualche anno lo spettacolo affascinante della pesca “alla tratta”, rigorosamente in diretta, viene offerto ai turisti che affollano le spiagge di Rimini nonostante il divieto di praticarla in vigore da quasi mezzo secolo. II tutto grazie a un’autorizzazione speciale delle autorità marittime (rilasciata in nome della salvaguardia delle tradizioni locali) e all’iniziativa dell’associazione Pro Loco Ghetto Turco, del Circolo Nautico Viserba e della Cooperativa Sociale Punto Verde che coinvolgono, di volta in volta, i Comitati Turistici delle zone interessate.
Le rievocazioni storiche
Le rievocazioni storiche della pesca alla tratta che hanno animato il litorale riminese nell’estate 2013 sono dieci. Iniziate in giugno a Viserba, le ultime della stagione a Marebello (ai Bagni 99 e 100) e a Bellariva (al Bagno 85). La tratta è una tecnica di pesca costiera “povera”, conosciuta fin dall’antichità. Si utilizzava una lunga rete che con un lato doveva strisciare sul fondo con l’ausilio di piombi, mentre l’altro lato, che doveva essere teso verso la superficie, era dotato di galleggianti (sugheri). Un capo della rete restava fissato sulla battigia, mentre l’altro capo, con l’aiuto di una piccola barca (di solito una battana) veniva portato in acqua creando un ampio semicerchio, sino a tornare a terra. A questo punto i pescatori, immersi nell’acqua in due file distinte, iniziavano a recuperare le due cime, e legandosi in vita il crocco (e’ croc), tiravano a terra la rete che, strisciando sul fondale, intrappolava il pesce rimasto all’interno del semicerchio.
Un lavoro di squadra
Era un lavoro di squadra a cui partecipavano, per la selezione del pescato, anche donne, anziani e bambini. Serviva come integrazione al misero reddito familiare di chi era addetto ad altre occupazioni. Di solito il pesce veniva portato subito nell’entroterra per essere scambiato con prodotti dell’agricoltura. Era un lavoro di fatica, fatto all’alba, con le gambe a mollo anche con l’acqua gelida. Per le sue caratteristiche, la tratta – che richiede fondali sabbiosi poco profondi – era eseguita spesso anche da contadini che scendevano al mare e raccoglievano così qualcosa da mettere in tavola. Fu molto praticata nell’immediato dopoguerra, quando, a causa delle barche ancora distrutte e del pericolo delle mine, la pesca d’altura stentava a riprendersi.
Oggi è teatro!
Oggi è quasi un gioco, una rappresentazione teatrale all’aperto dove gli attori principali, sorridenti e orgogliosi, sfoggiano chiome bianche che fanno risaltare l’abbronzatura, calzoni rimboccati, “crocco” stretto in vita per tirare la lunga rete. In gruppo, con l’ondeggiare ritmico guidato dalla voce del capo tratta, regalano un sipario sul passato mettendo in scena una sorta di danza. E spettatori d’ogni età e lingua, affascinati, si stringono agli attori in un abbraccio documentato da telefonini e fotocamere che cliccano a più non posso. I più coraggiosi si uniscono alle due file di “tiratori” immergendosi in acqua per stringere con forza le grosse cime. Magari il frutto della pesca si limita a qualche cefalo, che con guizzi argentei tenta di sfuggire alla cattura. Ma l’esperienza è irripetibile! Finita la tirata, a onor di cronaca, oggi i pesci vengono liberati e tornano nel loro habitat naturale, mentre per i nostri nonni rappresentavano una vera ricchezza per la sopravvivenza della famiglia.
“II mare non è più quello di una volta. – spiega sconsolato Zambo, ex pescatore ed esperto trattarolo – Da Viserba andavamo a pescare fino a Porto Corsini e addirittura alle Punte del Reno. Il crocco è questo cinturone fatto con rete o stoffa resistente. In tempi di guerra si usava la gomma dei copertoni, anche quelli delle biciclette. Si lega in vita e si aggancia alla corda superiore, quella coi sugheri (e’ scòrz). Invece la corda (la zima) di sotto, si chiama e piòmb. Ai lati estremi della rete, che ha lunghezze diverse a seconda dell’importanza della tratta, ci sono due bastoni (stànghi o màzi)”.
Cosa si pescava una volta?
Lo spiega Gianni Quondamatteo nel suo Dizionario Romagnolo Ragionato. “Quando l’Adriatico non era inquinato e povero di pesce, la tratta dava ottimi frutti: erano branchi di pesce turchino, dì sardoni soprattutto, cefali, mazzole, triglie e pesce di fondo. Erano famosi, per la loro bontà, i sardundia trata, molto migliori di quelli catturati in alto mare. Nell’immediato dopoguerra, ripopolatosi l’Adriatico per la tregua bellica imposta ai pescatori, si catturarono, con le tratte, enormi quantità di pesce turchino che restava a decomporsi in grandi mucchi sulla spiaggia, e che certi avveduti contadini usavano come concime. Le ultime, più note tratte della nostra zona, furono quelle di Guerino de dievul (Guerrino Bianchi), Baròz(Ricci), Ragnòn (Conti), Gesaròli, Aibinein. Noi ragazzini, sempre presenti alle varie pescate, raccoglievamo quanto sfuggiva alla cernita del pescatore; ci scappava quello che oggi viene riguardato come un raffinato fritto di pesce: gamberetti, pgnulét, qualche seppiolina o calamaretto, dei sardoncini, pesciragni liberati dalle pericolose spine velenifere, qualche plus. Si pensi solo che le acque adiacenti alla spiaggia ribollivano letteralmente di gamberetti, con cui le nostre madri- tòltone un pugnello da far fritti – nutrivano i polli!”.
Maria Cristina Muccioli