Parlare con monsignor Claudio Maria Celli è sempre piacevole. Con le sue riflessioni ti spalanca orizzonti ogni volta nuovi. L’ora e un quarto che mi ha dedicato, facendo anche ritardare il pranzo alla sua carissima mamma, anziana, ma ancora in ottima forma, è passato in un baleno. È a Rimini, nella sua casa a due passi da Parco Cervi, per festeggiare nella sua parrocchia di San Giovanni Battista, i cinquant’anni di sacerdozio.
Don Claudio, 19 marzo 1965. Cosa ricordi di quel momento?
“La prima persona che ricordo è naturalmente monsignor Emilio Biancheri, vescovo dal grande cuore, sensibilità e attenzione per tutti. Accanto a lui alcuni sacerdoti: il mio parroco don Peppino, don Aldo Maioli che era stato mio cappellano e soprattutto don Luigi Tiberti e don Oreste Benzi, che furono davvero i primi testimoni (e non solo) del mio cammino vocazionale. C’era poi don Fausto Lanfranchi, allora Rettore del Seminario”.
Come è maturata la tua vocazione?
“All’interno della vita di Azione Cattolica, affascinato dalla figura di questi grandi preti. Il buon Dio ha un suo stile, una sua maniera di chiamare. Tutta la vita è una vocazione, una chiamata misteriosa, che rileggi pian piano. Non si incontra per caso uno che ti sta aspettando, e ti aspetta perché ti ama per primo e non una volta sola. La vita è un cammino su sentieri che non conosci prima. Chi l’avrebbe mai detto, quel 19 marzo 1965, che il Signore mi avrebbe portato sulle strade dove poi mi ha portato?”.
Ripercorriamo dunque un po’ la tua storia di questi 50 anni. Prima il servizio in Diocesi nell’Opera Vocazioni con don Meo, poi dal 1970 entri a far parte della diplomazia vaticana, impegnato con diversi servizi nelle nunziature apostoliche in Honduras, Filippine e Argentina. Vorrei proprio fermarmi sull’Argentina, perché viveva il periodo più drammatico della sua storia, con la ribellione dei Montoneros e la tremenda repressione della dittatura militare…
“Ero lì negli anni 1979-82. Fu uno dei momenti più angoscianti della mia vita, ma un’esperienza fortissima. Ero impegnato nella pastorale con i giovani universitari, ma molto tempo dedicavo all’ascolto e al dialogo con i familiari, genitori, mogli e figli degli scomparsi, i desaparecidos. Ogni mattina incontravo almeno una quindicina di genitori”.
E qui mi racconta qualche storia, che però mi chiede di non riferire. Monsignor Celli è così, un po’ perché la discrezione è nella sua indole di diplomatico, un po’ perché non gli piace troppo apparire. Ma su di una storia disubbidirò alla sua richiesta…
“Una volta venne il babbo di una donna scomparsa. Era stata arrestata lei insieme con il marito e due piccole figlie. Mi disse: ‘Certo, il marito era Montoneros e sua moglie lo segue, perché è la moglie, ma le due bambine che c’entrano? Ci aiuti a ritrovarle’. Quel pomeriggio mi misi in moto e feci tantissime telefonate, fino a personaggi del vertice argentino. Il giorno dopo mi chiama una persona e mi dice: ‘<+cors>Le bambine le abbiamo ritrovate, ma lei non potrà mai dire con chi ha parlato, né chi sono io<+testo_band>’. Ho chiamato i genitori e siamo riusciti a ritrovarle e a riabbracciarle. Del padre non si seppe più nulla, scomparso per sempre. La mamma riapparve un mese dopo in un carcere femminile come detenuta politica. E come dono mi incise su di un osso della zuppa del carcere un crocifisso, molto rudimentale, che conservo gelosamente. In quel tempo conobbi Bergoglio”.
Dunque un’amiciza di lunga data…
“Certo, posso vantare di essere suo amico dal 1979. Era appena stato provinciale dei Gesuiti. Con lui avevo un ottimo rapporto, confermato negli anni. Oggi quando sono in pubblico mantengo un atteggiamento formale. Non vorrei essere scambiato per quello che fa l’amico del Papa. Ma nel privato papa Francesco è sempre lui, come appare quotidianamente. Ogni volta che ci si incontra sono baci e abbracci. È molto affettuoso. Gli argentini poi, più degli altri sudamericani, salutano sempre con l’abbraccio e il bacio. Scherzando, dico che non avrei mai pensato di baciare tante volte il Papa!”.
Andiamo avanti nella tua storia. Nel 1990 diventi sottosegretario ai Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato vaticana, per capirci una specie di vice ministro degli esteri del Papa. Insieme a Yossi Beilin, vice ministro degli Esteri di Israele, hai firmato il 30 dicembre 1993, a Gerusalemme, il primo accordo storico – il cosiddetto Accordo Fondamentale – fra la Santa Sede e lo Stato Israeliano.
“Con Yossi Beilin ho mantenuto un bellissimo rapporto personale. Lui era il braccio destro di Perez, allora ministro degli esteri israeliano. Fu il primo accordo fra Israele e Vaticano. Un cammino lungo dove un grande ruolo lo ebbero padre David Jaeger e il delegato apostolico Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, che era stabile a Gerusalemme. Si aprì la Nunziatura a Tel Aviv. Iniziò anche il dialogo ufficiale con i palestinesi a Horient House. Cominciò anche il dialogo con la Giordania…”.
Altra tappa importante il rapporto con la Repubblica Popolare Cinese e il Vietnam.
“In quel periodo comincia anche il dialogo con il Vietnam, con sette visite nel paese asiatico. Poi sono stato il primo ad iniziare un rapporto con i cinesi, un dialogo difficile, che ancora oggi continua”.
Si racconta che avevi anche studiato il cinese…
“Fu solo un tentativo, rapidamente abbandonato. Per studiare il cinese devi per due anni dedicarti unicamente a quello. Non era possibile per me”.
Perché il dialogo con la Cina è così difficile?
“Perché abbiamo visioni diverse di libertà religiosa. Anche le altre religioni hanno le stesse difficoltà, ma al Governo non importa tanto, perché hanno una base nazionalistica rispetto alla religione cattolica, che ha un pastore universale. C’è un articolo della Costituzione cinese, il 36, che dice che un cinese non può appartenere ad una religione che ha un capo straniero. La visione è sostanzialmente quella imperiale, con radici storiche profonde. L’imperatore era anche il supremo sacerdote. Con Matteo Ricci il problema in fondo era lo stesso. Lo stupore della casa imperiale stava nel fatto che un semplice uomo, come il missionario, si rivolgesse al Dio del cielo. Quello poteva farlo solo l’imperatore. I personaggi al di sotto dell’imperatore dovevano rivolgersi a divinità di più basso livello, ma al Dio del cielo poteva rivolgersi solo l’imperatore. Ciò significa che per un cinese la religione non è una questione puramente privata, che tocca unicamente la sua coscienza, ma è sotto l’ombrello protettore dell’autorità, prima quella imperiale, oggi quella del partito. Il cattolico perciò non può vivere in pienezza la propria fede, che comprende anche l’essere in comunione con Pietro. Il Governo non vuole perdere il controllo sulla vita religiosa dei cattolici. Il punto più delicato è la nomina dei vescovi. Io dico che oggi è impossibile immaginare in Cina una chiesa cattolica pienamente libera. Uso l’esempio della gabbia. Noi siamo un uccello in gabbia. Il mio obiettivo è aumentare il volume della gabbia, perché oggi è impensabile eliminare la gabbia. È impensabile, oggi come oggi, avere piena libertà. Helsinki l’ha detto in maniera precisa: il principale diritto umano è la libertà di coscienza, la libertà religiosa, ma è innegabile che se riconosco questa libertà ne segue il diritto alla libertà politica… Ma il partito in questo momento non è disponibile a ciò. Allora non è solo un problema religioso. Certo, quando ho iniziato a lavorare per la Cina era proibito avere anche solo un’immagine del Papa. Oggi lo si può fare. Era proibito menzionare il nome del Papa nel canone della Messa. Oggi lo si fa. La gabbia si è allargata. Innegabilmente c’è un miglioramento della libertà religiosa, ma non la piena libertà religiosa”.
Papa Francesco riuscirà a smuovere questo atteggiamento?
“Certo, molto sta cambiando. Dei segnali ci sono. Organi ufficiali cinesi, più volte, hanno pubblicato la fotografia del Papa e, varie volte, vengono citati brani dei suoi discorsi. Circola voce che il nuovo presidente Xi Jinping abbia una simpatia per il Papa, per i suoi atteggiamenti innovativi. Il Papa gli ha scritto: Io sono disposto ad incontrarla dove vuole, quando vuole, come vuole… Un atteggiamento che certo avevano anche gli altri Papi… Vediamo quel che accadrà”.
A proposito di Cina, hai promosso la traduzione di numerosi testi del Pontefice in cinese, inaugurando anche una versione del sito papale in questa lingua. Infatti nel 2007 sei stato nominato da papa Benedetto XVI presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e della Filmoteca Vaticana e dal 2009 presidente del Consiglio di Amministrazione del Centro Televisivo Vaticano.
Quali sono le sfide della e nella comunicazione, per la Chiesa di oggi?
“Una delle grandi sfide che dobbiamo affrontare oggi riguarda la presenza della Chiesa nel contesto creato dalle nuove tecnologie. Certamente la Chiesa ha come punto di riferimento la testimonianza personale e papa Francesco ce lo ha nuovamente ricordato, come già fecero i suoi predecessori, tra cui Paolo VI, con la <+cors>Evangelii nuntiandi<+testo_band>. La Chiesa comunica per attrazione e non per propaganda religiosa. Quindi, questo concetto è importante: attrazione significa che gli altri comprendono il messaggio attraverso la nostra testimonianza. Questa è la forza primaria della comunicazione nella Chiesa. Naturalmente le nuove tecnologie non cancellano i media tradizionali: stampa, radio e televisione. Quella della comunicazione è una grande sfida, ma anche una grande opportunità”.
Che dire, invece, dei social network?
“Nel grande contesto dei social network, siamo chiamati a testimoniare i valori in cui crediamo. Per questo, papa Francesco, nel suo primo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, ha dichiarato: «Non abbiate paura di entrare nelle reti sociali». Non è un invito ingenuo. Sappiamo tutti dei rischi e dei pericoli che esistono nelle reti sociali e su Internet. Con una bella espressione, papa Francesco afferma che il problema non è bombardare i social network con messaggi religiosi, ma il tema essenziale è quello di dare testimonianza. Fare sintesi tra la mia vita e il Vangelo. Perché l’uomo di oggi, come ricordava papa Paolo VI, crede più nei testimoni che nei maestri. E se crede in un maestro è perché questi è anche un testimone. Dobbiamo saper raccogliere la sfida, valutando e apprezzando le opportunità che ci vengono offerte, di poter dialogare con coloro che non hanno mai messo piede in chiesa, ma frequentemente accedono ai siti web”.
Un ultimo pensiero. Sul Papa. Due parole che condensano il suo messaggio.
“Papa Francesco è un uomo che ci sta portando verso un’essenzialità. Due riferimenti, molto forti. Il primo suo messaggio sta nella cultura dell’incontro. Come riferimento ha il Buon Samaritano. Una chiesa che attraverso la comunicazione è accanto all’uomo, cammina con l’uomo, esprime simpatia per l’uomo. Il secondo è il sogno di una Chiesa che recuperi la sua dimensione materna. La maternità di una Chiesa, che non è lì solo per condannare, per etichettare, ma che sa accogliere, sa farsi carico. Il Papa spinge molto sull’essenzialità, il vivere profondamente in sintonia con Gesù. Il compito nostro è la testimonianza. Citando Francesco d’Assisi diceva: ‘Dovete sempre annunciare Gesù Cristo e se ci fosse bisogno anche con le parole’. La chiesa cresce per attrazione. Questa è la Chiesa che vuole papa Francesco. Queste sono le grandi piste sulle quali anch’io sto lavorando, che ci impegnano ad una conversione personale e pastorale.”
Giovanni Tonelli