Oggi nel mondo si contano 900 milioni di anziani, nel 2050 saranno 2 miliardi. Nella sola Emilia Romagna sono oltre un milione i cittadini residenti con più di 65 anni, di cui quasi 570mila over 75. Una quota importante della popolazione (23.4%), che le stime demografiche danno in costante aumento. Nella città di Rimini, invece, gli 11 Centri sociali anziani sostenuti dal Comune contano 2.500 tesserati over 65. Cifre importanti che richiedono un particolare approccio relazionale verso i più anziani, i quali sono trattati dalla società da un punto di visto clinico e farmacologico. Coinvolgere la persona anziana nelle situazioni e nelle decisioni che la riguardano, valorizzare il background culturale e la storia di vita della persona stessa, sono i due suggerimenti forniti da Fabio Folgheraiter, docente di Metodologia del lavoro sociale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e co-fondatore del Centro Studi Erickson, nel corso de «II Convegno internazionale» dedicato all’assistenza agli anziani e tenutosi al Palacongressi.
Approccio relazionale e non solo farmacologico. Cosa si intende professore?
“Le strutture di cura come tutti i servizi di welfare per definizione devono trattare umanamente le persone e credo che ci siano pochi servizi che di proposito perseguono fini perversi. Bisogna dare atto a tutti di una buona volontà e di un impegno notevole, tanto più che la condizione anziana è una condizione che sta debordando ed è di difficile contenimento sia da parte delle politiche sia dei servizi. Nel corso di questo convegno non abbiamo affrontato tutta la condizione della persona anziana ma solo cercato di mettere a fuoco le possibili innovazioni e le possibili modalità di prendersi cura degli anziani fragili e vulnerabili rispettando il principio dell’umanità. Intendiamo proporre un’innovazione delle pratiche assistenziali che ponga in primo piano aspetti quali la relazione e il coinvolgimento attivo dell’assistito”.
Un’innovazione che vede coinvolti tre soggetti: operatori, famiglie e pazienti.
“Per l’anziano ci sono varie figure di riferimento, dai dirigenti, ai clinici, fino agli assistenti sociali che gestiscono certe situazioni, e poi esistono gli assistenti ad personam che seguono la persona quotidianamente. Ma al di là dei vari ruoli e responsabilità, l’idea della relazione è che un operatore o una struttura di cura devono vivere gli anziani non come un peso o come un qualcosa che va preso in carico ma come un’entità che pur portando un carico di problemi, di sofferenza e di disagio, si rende portatrice anche di competenze, sensatezza, buona volontà. Quindi si può instaurare un dialogo tra la buona volontà degli operatori e di chi ha bisogno di assistenza”.
Quali sono i nuovi metodi a cui si fa riferimento?
“Coesistono varie esperienze di buone pratiche nazionali e internazionali. La modalità più emblematica dell’approccio relazionale è quella dei gruppo di «auto mutuo aiuto». È un’esperienza di gruppo che impegna le persone per il proprio e l’altrui benessere promuovendo le reciproche potenzialità, attraverso l’ascolto e il rispetto della storia di ognuno. Si partecipa al gruppo di auto mutuo aiuto secondo la propria disponibilità, portando se stesso e la propria storia di vita in un clima di fiducia. Pensiamo anche alla figura del caregiver per le persone anziane. In questi anni abbiamo fatto sperimentazioni con persone che presentano demenza. Esse vengono aiutate a confrontarsi e a scambiarsi le esperienze reciprocamente in modo che il conforto psicologico e i consigli possano nascere da un contesto di gruppo. Un operatore ha il dovere e il compito di unire le persone cosicché non si sentano isolate e di facilitare la loro relazione”.
Il mondo è popolato da moltissimi anziani. I Pronto Soccorso devono adattarsi a questo dato demografico?
“Si tratta di un problema organizzativo degli ospedali, tuttavia è necessaria un’attenzione maggiore a questo cambiamento. Si tratta di una maggiore umanizzazione. Specialisti, strutture sanitarie e assistenziali devono sempre tenere presente che si ha a che fare con le persone e che se si trattano le persone in quanto tali è meglio per tutti anche per le stesse istituzioni. Se l’ottica è prevalentemente aziendalistica e queste persone sono percepite come dei carichi prevale la preoccupazione per l’esigenza, per la razionalizzazione, per la standardizzazione che è tutta una tendenza che nei servizi sociali si fa sempre più forte. Se pensiamo a come standardizzare le prestazioni finiamo per trattare le persone come dei pacchi”.
L’Italia è un paese più relazionale o farmacologico?
“Per certi aspetti abbiamo importato molte pratiche per l’organizzazione delle strutture e delle case di riposo. Da anni ci sono riferimenti internazionali come la Gentlecare o il metodo Validation, tutti strumenti incorporati nelle strutture. Dal punto di vista relazionale in Italia abbiamo esperienze che nascono dal nostro associazionismo che è più intenso e molto meglio orientato rispetto ai paesi anglosassoni e nordici che sono più efficienti per tanti aspetti ma sul piano associativo e delle relazioni non siamo poi così indietro”.
Alessandro Notarnicola