“Sono 4 ore che aspetto, quando tocca a me? Sono passati avanti tutti!”. Comincia così, con la più atavica delle rimostranze, la nostra giornata al Pronto Soccorso di Rimini. Sciami di infermieri con le tute bianco-azzurre, placide come il loro carattere, si industriano per smaltire la folla. Conto circa 50 persone (accompagnatori compresi). Chi è seduto e chi in coda. Un’altra dozzina è stesa nei settori lettighe. Chissà quanti altri sono già stati inviati ai reparti specialistici.
Sensazioni. Sono le 18 di un giovedì estivo. Considerando l’affollamento, l’atmosfera all’interno è mite; complice l’architettura della nuova sede. Nonostante l’impersonalità – tipica di ogni ospedale del mondo – gli spazi sono ampi e comodi, le tinte colorate e tenui; poi l’aria condizionata, la pulizia, l’ordine, tutto quanto serve a infondere una maggiore mitezza all’animo nell’affrontare la lunga attesa. L’età media vola sopra i 60. Il nosocomio è una Babele di dialetti di più parti d’Italia – riconosco soprattutto il veneto – e di lingue straniere, in particolare dell’est-Europa.
Triage. “Da quanto ha sviluppato i sintomi? Venga che le misuro i parametri”. La calma monacale degli infermieri al banco accettazione è in grado di rasserenare anche il paziente più ansioso. Come tanti Minosse danteschi, su di loro grava la responsabilità di smistare le “anime”. Un errore nell’assegnazione del codice di priorità può essere punito dal codice penale. Una voce attira la mia attenzione. “You have to go down this way, dovete andare da questa parte”, un’infermiera esibisce un magnifico inglese con due ragazzotti, forse tedeschi. Un signore anziano seduto in sala è intento a scacciare le zanzare, attende l’uscita della moglie. “Ha spesso difficoltà a respirare – racconta con un dialetto stretto -. Siamo venuti da Vicenza per l’aria buona del mare”. Dovevano stare altri 10 giorni, ma il sospetto è che faranno presto le valigie.
Settanta percento. Dopo un’ora e mezza a smaltire la coda, per uno degli infermieri è giunta l’ora di un caffè. Lo raggiungo al distributore automatico. Quanta gente passa di qua? “A luglio e agosto possono esserci anche 300 pazienti al giorno. La metà in inverno. Però i flussi sono del tutto imprevedibili. Il giorno peggiore? Il lunedì, per via del weekend senza medico di base”.
Il dato più drammatico è che “almeno il 70% dei pazienti potrebbe risolvere tutto col proprio medico o con la guardia medica”. Il Pronto Soccorso è obbligato ad accogliere chiunque, quasi tutti anziani. “Il problema del sistema sanitario è che non fa fronte all’invecchiamento della popolazione con strutture specifiche, come si fa in Gran Bretagna”. Per cui gli ospedali diventano delle grandi geriatrie. “Se poi consideri che gli over65 non pagano il ticket…”. Gli aspetti più duri? “Gestire l’impazienza e i lutti. Quando una persona muore ci coinvolge emotivamente, soprattutto in primavera quando si iniziano a vedere molte vittime giovani per gli incidenti stradali”.
Attesa. Uno spaccato di umanità si manifesta tra le file delle sedie. Una bambina sudamericana con i genitori italiani stringe forte una bambola; ha paura del collirio. Un’altra, bionda, esce radiosa da uno degli ambulatori; il medico le ha regalato un guanto di lattice, gonfiato come un palloncino. Un anziano solo, steso su una lettiga, si lamenta con parole incomprensibili. Passerà del tempo prima che qualcuno gli si avvicini. Accanto a lui, un bambino quasi scompare tra le pesanti coperte di un letto troppo grande per il suo piccolo corpo. Con la madre ricostruisce la scena del suo incidente: una botta. Lei lo tranquillizza con uno smartphone… sono passati i tempi delle caramelle. Un suono acuto attraversa la stanza: un’immancabile suoneria dal volume altissimo. “Pronto? No, non riusciamo a venire a cena, qua ne abbiamo ancora per molto”. Una signora di mezz’età dal caschetto biondo, forse ucraina, si infila nel corridoio degli ambulatori medici per capire quando toccherà a lei. Torna indietro senza successo. Come tutti dovrà esercitarsi in quello sport democratico che non fa sconti a nessuno, l’attesa.
Mentre le infermiere delle urgenze pediatriche mi raccontano quali sono gli orari peggiori (“la sera”), una coppia dagli occhi bagnati si presenta con un fagotto tra le mani. È il loro bimbo caduto dal fasciatoio. L’apprensione li ha portati a saltare il triage: “Dovete prima fare l’accettazione, è così per tutti”, l’infermiera indica la strada. “Non me lo può guardare prima?!”, il padre è divorato dall’ansia. Nessuna eccezione alla regola. “Se sfioriamo i pazienti prima dell’accettazione corriamo grossi rischi”.
Sigarette. Dopo due ore di passeggiate il pronto soccorso fa in tempo e svuotarsi e a riempirsi di nuovo. Cantilene di bambini, altri accenti e un nuovo crogiolo dell’impazienza fanno il loro ingresso. Prendo anch’io una boccata d’aria, che si traduce poi essere di fumo, e parlo con chi ha una sigaretta tra le dita. “È uno scandalo che si debba pagare il parcheggio – si lamentano due donne spesso al pronto soccorso coi loro familiari -.A Pesaro ti danno un bollino se vai al pronto soccorso, così non paghi!”. “Ho incontrato un signore che non sapeva a chi mostrare il cartellino dell’invalidità. Alla fine si è rassegnato e ha pagato”. Un’altra donna varca l’atrio col volto cupo. Porta due grossi cuscini e un borsone. Si appresta a passare qui la notte. Nella mezz’ora in cui sto di fuori due ambulanze si arrampicano per la salita d’ingresso.
Prima di uscire, incontro di nuovo il bambino del fasciatoio con i genitori. “È stata tutta colpa mia, mi è caduto”, confessa il padre. Capita a tutti, provo a rassicurarlo. “Per fortuna sembra vada tutto bene… ora speriamo non ci tengano qui le ore”.
Mirco Paganelli