I cambiamenti climatici non si fermano. Il clima continua a cambiare e, da diversi anni, anche il territorio di Rimini ne sta facendo esperienza diretta: come approfondito in precedenti articoli de ilPonte (l’ultimo dei quali nel numero 36, dedicato agli effetti sul fiume Marecchia), le ultime annate della riviera romagnola sono state caratterizzate da estati estremamente calde e torride, causa di prolungate siccità intervallate solo da eventi atmosferici improvvisi e violenti, che causano più danni che benefici. Una situazione climatica anomala per la Romagna, ma che è sintomo allarmante di un fenomeno in atto da anni in tutto il mondo e che rischia di diventare la vera emergenza dei prossimi decenni. Qual è la situazione generale? Come cambiare rotta e, soprattutto, siamo ancora in tempo per farlo? Risponde, con un’approfondita analisi, il professore riminese Antonello Pasini (nella foto), fisico climatologo del CNR e docente di Fisica del Clima all’Università Roma Tre.
“Il dato di partenza è che, negli ultimi decenni, la situazione nel Mediterraneo sta cambiando. Da cosa è dovuto questo cambiamento? Il riscaldamento globale, che è causato dall’azione umana (emissioni di gas serra, deforestazione, agricoltura non sostenibile), ha fatto espandere verso nord, e cioè nel Mediterraneo, la circolazione equatoriale e tropicale”.
E questo cosa comporta?
“Quella circolazione, che faceva sì che gli anticicloni africani rimanessero sul deserto del Sahara, ora invece consente periodici ingressi di questi anticicloni anche nella nostra zona mediterranea. In passato, noi avevamo l’anticiclone delle Azzorre, un ‘cuscinetto’ di aria stabile proveniente dall’Oceano Atlantico che si estendeva da ovest verso est lungo tutto il Mediterraneo, proteggendoci da una parte da perturbazioni provenienti dal nord Europa e, dall’altra, dal caldo feroce africano. Il cambiamento, dunque, sta proprio in questo: oggi non abbiamo più l’anticiclone delle Azzorre e, al suo posto, abbiamo queste ‘incursioni’ da parte degli anticicloni africani, caratterizzati da aria estremamente calda e spesso anche molto umida. Con tutte le conseguenze che sperimentiamo negli ultimi anni: costante riscaldamento dei nostri mari, crescente disagio nelle città e prolungate siccità, con riflessi negativi sull’agricoltura. A tutto questo, inoltre, si aggiunge il fatto che la quota neve in inverno si è alzata, privando l’agricoltura anche di tutta quella neve che, accumulata in inverno, rilasciava acqua in primavera”.
Anche le condizioni climatiche delle recenti estati romagnole sono dovute a questi mutamenti?
“Sì. Gli eventi atmosferici violenti sono dovuti al fatto che questi anticicloni africani non hanno la forza necessaria per rimanere costantemente sulla nostra zona mediterranea (per fortuna, sotto molti punti di vista). Quando, dunque, questa aria così calda si ritira, lascia spazio al ritorno di aria più fredda che, entrando in contatto con aria umida preesistente e con mari e terre molto più calde, danno vita a eventi atmosferici di questo tipo. Più questo contrasto è forte e più sono violenti gli eventi prodotti: alluvioni lampo, grandinate feroci con pezzi di ghiaccio in grado di raggiungere anche le dimensioni di palle da tennis e altre situazioni che, purtroppo, abbiamo imparato a conoscere. In sostanza, questi eventi violenti sono dovuti alla estremizzazione generale del clima in atto nel Mediterraneo”.
Allarghiamo la prospettiva perché, purtroppo, non stiamo parlando di un’emergenza solo romagnola. Se il clima muta a livello globale, come possiamo intervenire per cambiare rotta?
“Innanzitutto dobbiamo partire dal presupposto che per diverse cose non possiamo già più tornare indietro. In tutte le conferenze internazionali dedicate all’argomento, infatti, non si discute mai di come tornare alla situazione climatica che avevamo prima, ma di come fermare il fenomeno del riscaldamento globale prima che sia troppo tardi. Molte di queste situazioni, quindi, ce le dovremo portare dietro anche in futuro. Dobbiamo conviverci. Come intervenire, dunque? In primo luogo, adattandoci. Adattare le città, per evitare i disastri e le tragedie cui assistiamo periodicamente quando ci sono forti eventi atmosferici; adattare l’agricoltura, cambiando i tipi di coltura e privilegiando quelle in grado di vivere anche in periodi di prolungata siccità, e così via. Dobbiamo, poi, sviluppare subito una rinnovata consapevolezza su ciò che possiamo o che non possiamo più fare: smettere di costruire negli alvei dei fiumi o al di fuori dei piani regolatori. Abbandonare, in sostanza, questa cultura dell’abuso, assai diffusa in Italia, e passare invece a una cultura della legalità. È necessaria una estesa e generale operazione culturale, soprattutto che ci permetta anche di capire che non possiamo più guardare a un palmo dal nostro naso, perché il clima è globale: ciò che avviene in una parte del mondo si ripercuote su tutto il pianeta”.
Sembra facile a dirsi, ma un cambio di consapevolezza generale necessita di tanto tempo. Tempo che, secondo la comunità scientifica, è sempre più scarso: cosa accadrà se raggiungeremo il “punto di non ritorno”?
“Detta in modo molto concreto: se non bloccheremo il processo di riscaldamento globale, e andremo oltre l’aumento di 2 gradi di temperatura (potremmo raggiungere addirittura i 4 o 5 gradi), succederanno cose molto spiacevoli in diverse zone del mondo. Dall’epoca preindustriale a oggi la temperatura è aumentata di 1,1 gradi e il nostro obiettivo è di bloccare l’aumento entro l’1,5 o 2 gradi. Ma negli ultimi 60 anni l’aumento ha subìto una forte accelerazione. Ora, io non penso che potremo arrivare addirittura all’estinzione della razza umana, ma la nostra vita si complicherà molto, perché la società diventerà molto più conflittuale. Pensiamo, solo per citare un tema, alle migrazioni: negli ultimi anni siamo andati in crisi per poche decine di migliaia di persone, ma in Africa ci sono 250 milioni di persone che se non avranno più da mangiare si troveranno costrette a cercare altri luoghi. Proprio su questo qualche anno fa ho scritto un libro dal titolo ‘Effetto serra, effetto guerra’, nel quale emerge l’attualità di questi problemi. Nel mio ultimo libro, invece, ‘L’equazione dei disastri’, mi sono concentrato sugli eventi estremi, e sulle loro cause ed effetti in Italia. E non ne emerge un bel quadro. Ma non solo: anche l’economia risentirà di questi effetti e avremo danni notevolissimi lungo le coste, Romagna compresa. In sintesi, per la prima volta dopo tantissimo tempo, le nuove generazioni si troveranno a dover gestire un mondo peggiore di quello dei propri padri”.
A tutto questo, inoltre, va aggiunta una fortissima componente di disequità internazionale.
“Tra le cause determinanti il cambiamento climatico c’è sicuramente lo sviluppo industriale. Quindi i principali attori di questo mutamento sono i Paesi più sviluppati: storicamente si parla di Europa, Stati Uniti o Giappone, a cui più di recente si sono uniti Cina e India. Ma a subire l’impatto più grave di tutto questo sono i Paesi in via di sviluppo, come quelli africani della fascia del Sahel, che non hanno nessuna colpa e nessuna responsabilità”.
Ha accennato alle nuove generazioni. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla forte crescita di una sensibilità ambientale proprio nei più giovani. Pensa che i giovani possano contribuire in modo decisivo a un cambio di rotta? Oppure figure come Greta Thunberg o Vanessa Nakate rischiano di ridurre il dibattito a una dialettica tra personaggi, senza andare oltre?
“No, non credo che l’argomento possa arenarsi sui suoi personaggi. Credo, invece, che i giovani di oggi abbiano fatto in un paio di anni molto di più di quello che abbiamo fatto noi ‘grandi’ in decenni di rapporti internazionali e di politica. E appoggio fortemente questo loro impegno attivo: per intenderci, sono stato l’unico adulto a parlare dal palco di Piazza del Popolo quando Greta Thunberg è venuta a Roma nel 2019. Tutto questo ha un forte valore dal punto di vista psicologico e sociologico: se anche chi potrebbe essere tua figlia ti dice con forza che le cose devono cambiare, significa che, davvero, non possiamo più ignorare la questione”.