L’opera di Verdi riproposta alla Bayerische Staatsoper nel suggestivo allestimento di Johannes Erath con un notevole cast
MUENCHEN, 22 giugno 2022 – È probabile che Un ballo in maschera, a differenza di altri titoli verdiani più noti, non appartenga al lessico familiare degli appassionati d’opera tedeschi. Diventa quindi verosimile che al pubblico sfuggano alcuni aspetti problematici di questo melodramma, tanto più che l’allestimento – in nome della fedeltà al Konzept, ossia all’interpretazione che hanno scelto regista e drammaturgo – orienta decisamente verso una lettura senza alcun rimando alla sua travagliata genesi. Come è noto, invece, il libretto che Antonio Somma aveva tratto da Scribe, con il nome di Gustavo III, incorse nelle maglie della censura (era vietato mettere in scena un regicidio) e subì vistose trasformazioni. Ma Verdi, ormai navigato uomo di teatro, seppe venire a patti anche con certe incongruenze venutesi a creare nella vicenda e, quando questo capolavoro debuttò nel 1859, era riuscito da par suo a scolpire figure musicalmente indimenticabili e ad armonizzarne i risvolti tragici – quasi noir – con la leggerezza della commedia.
Aspetti certo non facili da fondere in palcoscenico, ma nello spettacolo andato in scena alla Bayerische Staatsoper, che è la ripresa di un vecchio allestimento del 2016, il regista Johannes Erath riesce a tenerli insieme affidandosi a una visualità cinematografica, da film in bianco e nero (la scena unica è di Heike Scheele, i costumi anni venti sono di Gesine Völlm, le proiezioni video di Lea Heutelbeck). Sul piano drammaturgico punta tutto sulla tormentata ambivalenza dei sentimenti: quelli di Amelia, combattuta tra l’amore per Riccardo e il marito Renato, quelli dello stesso Riccardo che non sa risolversi tra la lealtà verso l’amico e l’attrazione per la donna. Esplicita insomma le sollecitazioni del triangolo verdiano, cui però aggiunge un ulteriore elemento di ambiguità, trasformandolo in un quadrilatero amoroso grazie al personaggio di Oscar (ruolo en travesti): con un colpo di scena finale, il paggio rivela la sua natura femminile e tutta la passione sottaciuta nei confronti di Renato. La figura dell’indovina nera Ulrica, problematica da inserire in un contesto alto-borghese, viene trasformata dalla regia – con radicale straniamento – in una bionda e sinuosa immagine, che ha la funzione di far emergere le motivazioni psicanalitiche alla radice di ogni personaggio. Non a caso al centro della scena troneggia un grande letto e una scalinata a spirale conduce a un altrove, rappresentato da uno specchio nella volta del soffitto in cui viene riflesso il cadavere di Riccardo.
Del resto, tutto è già tutto scritto nella musica: peccato che invece il direttore Paolo Arrivabeni non abbia sfruttato a fondo le potenzialità della Bayerisches Staatsorchester, magnifici strumentisti dotati di eccellente qualità di suono e con ottime prime parti. La sua direzione sfumava da un eccessivo spessore fonico a certi allentamenti di tensione nei passaggi più cantabili, dove non si avvertiva quell’incalzare ritmico che nel Ballo in maschera, forse più che in altre opere verdiane, ha un profondo significato espressivo. Molto apprezzabile il contributo del coro (preparato da Stellario Fagone) che ha sfoderato una consistenza quasi sinfonica, accompagnato sempre da notevole morbidezza.
La quadratura del cerchio è avvenuta grazie agli interpreti, in grado di delineare – assecondando le indicazioni registiche – il profilo psicologico dei personaggi: a cominciare da Piotr Beczala, che veste i panni di Riccardo fin da quando lo spettacolo è nato. Anche se con emissione talvolta discontinua, il tenore polacco ne offre un ritratto sfaccettato e di straordinaria intensità, che alterna tratti guasconi alla consapevolezza della solitudine dei potenti, ma è soprattutto evidente la sua coscienza – davvero inquietante – del destino di morte che lo attende. Amelia era un’autentica fuoriclasse come Sondra Radvanovsky, in grado di rendere – grazie a un’esemplare sicurezza e alla rotondità della voce, anche nella regione più acuta – il tormento di una donna che reprime i propri sentimenti. Il baritono Roman Burdenko ha disegnato con voce solida e ben timbrata un Renato che vira da amico leale a implacabile giustiziere. Alisa Kolosova – una sostituzione dell’ultimo momento – ha sfoderato, come Ulrica, bel colore scuro, seppure non accompagnato da una dizione sempre intelligibile. Nei panni del paggio Oscar, Deanna Breiwick – voce un po’ piccola, ma gestita sempre con precisione – è apparsa efficacissima in scena. Da menzionare Andrew Hamilton, incisivo nel breve ruolo di Silvano, e – forse un po’ meno a fuoco – Andrew Harris e Bálint Szabó, rispettivamente Samuel e Tom. Ed è proprio grazie alla bravura degli interpreti che il pubblico ha avuto la possibilità di entrare in risonanza con i personaggi. Pure chi si accostava per la prima volta al Ballo in maschera.
Giulia Vannoni