Si erano appena aperte in Italia le scuole pubbliche e per la prima volta nella capitale torinese si trovavano insieme bambini di ogni ceto sociale. «Io sono il figlio del padrone della fabbrica!» se ne esce uno durante la ricreazione. «Io invece sono il figlio del banchiere!» gli ribatte subito il secondo del gruppetto. «Voi allora non sapete chi sono io… – incalza il terzo tutto impettito – Io sono il figlio del ministro!». «E tu chi sei?» chiedono all’ultimo, rimasto silenzioso e un po’ in disparte, con quei vestiti un po’ malconci, che tradiscono le sue umili origini: «Poveretti! Mi dispiace per voi! – inizia spiazzando tutti – Voi non sapete quindi chi sono io?» e tra lo sbigottimento e la suspense generale, dichiara con orgoglio: «Io sono figlio di Dio!».
È l’umile vanto e la coraggiosa audacia che ogni domenica alla Messa dovrebbe afferrare anche noi, quando il sacerdote ci invita a pregare il Padre Nostro, il primo Rito di Comunione che ci prepara a ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo (OGMR 80-81): «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire:…». Osiamo dire! Audemus dicere, riporta il testo latino sottotraccia (risalente a San Cipriano e introdotto nella liturgia da Gregorio Magno, VI sec.), che può essere meglio tradotto con «Abbiamo il coraggio di dire!».
Effettivamente ci vuole coraggio a rivolgersi a Dio non come al Signore e Creatore, ma come al mio/nostro Padre; ci vuole soprattutto una profonda fiducia filiale per essere certi di questa figliolanza, come quella mostrata dal “povero” bimbo torinese. Non basta saperlo: occorre sentirla nel petto, nelle vene, nei nervi e lungo la spina dorsale, da mattina a sera e da sera a mattina.
Tuttavia, non può essere sforzo umano, autoconvincimento; può essere /strong> solo dono . Ed effettivamente è uno dei 7 doni dello Spirito Santo, lo Spirito del Timore filiale, che Cristo ci ha acquistato facendoci partecipi del suo essere Figlio , facendoci cioè “figli nel Figlio”, cristiani.
Solo Cristo, infatti, può farci superare la soglia della Santità divina, «darci il coraggio [parresia] di avvicinarci in piena fiducia a Dio per la fede in lui» (Ef 3,12) e introdurci davanti al volto del Padre, dicendo: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13). Solo l’autorità di Cristo e il suo Spirito possono spingerci a dire, a gridare « Babbo, Papà! », come ci insegna San Paolo: «Non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: “Abbà, padre!”. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio, e se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,15; 1Gv 3,1), come appunto facciamo nella Messa, celebrando il suo memoriale di morte-risurrezione.
Dio è certamente Padre di tutti, ma solo dei cristiani è il Babbo , il Papà, e Bà, come diciamo noi romagnoli.
La Preghiera del Signore quindi non può essere detta “a sangue freddo”, improvvisata, ma esige preparazione: non solo per non “andare in automatico” visto che la sappiamo bene a memoria, ma soprattutto per non essere pronunciata solo da “labbra umane”, senza cioè essere mossi dallo Spirito del Timore filiale : «Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre – si chiedeva già San Pietro Crisologo – se non solo quando l’intimo dell’uomo è animato dalla potenza dall’alto?» (Discorso, 71). Questa potenza dall’alto, racchiusa nel dono del Timore filiale, è precisamente la parresia , cioè il coraggio e la libertà dei figli, la schiettezza e l’umile audacia di chiamare Dio “Babbo”.
Ecco perché il sacerdote, a mani giunte in segno di supplica (OGMR 152; v. Catechesi, n. 64), ci invita a pregare il Padre Nostro; e non dice semplicemente Preghiamo, ma ci ammonisce (con una delle 4 formule a scelta) che ciò che stiamo per fare non viene da “carne e da sangue”, ma è un comando del Signore e dono del suo Spirito : «Il Signore ci ha donato il suo Spirito. Con la fiducia e la libertà dei figli, diciamo insieme» (II); «Prima di partecipare al banchetto dell’Eucaristia, segno di riconciliazione e vincolo di unione fraterna, preghiamo insieme come il Signore ci ha insegnato» (III); «Guidati dallo Spirito di Gesù e illuminati dalla sapienza del Vangelo, osiamo dire» (IV).
Queste formule d’invito, diverse lungo la storia e nelle diverse liturgie, riflettono l’<+nero>antico uso di mantenere segreto il Padre Nostro , affinché non fosse indegnamente pronunciato da coloro che non avevano lo Spirito del Signore, cioè i non battezzati. Da qui, il rito della Traditio (consegna) del Padre Nostro ai catecumeni, poco prima del battesimo, affinché lo imparassero a memoria per pronunciarlo “da figli” durante la veglia pasquale.
I primi cristiani lo recitavano in piedi e con le mani alzate , come le preghiere più solenni e come espressione dell’atteggiamento filiale (v. Catechesi, nn. 17.58), che vede il bimbo alzare le braccia per salire in quelle del padre. Ragion per cui la Conferenza Episcopale Italiana ha stabilito che non solo il sacerdote, ma anche i fedeli posso recitarla in tale postura (PNMR, Precisazioni Cei, 1).
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma non si dà la mano al vicino quando a Messa si prega il Padre Nostro? No. Non si deve e neppure si potrebbe. Per molte ragioni. La prima è di ordine simbolico: la Preghiera è rivolta al Padre e richiede quindi una postura che esprima la figliolanza, di cui la fraternità è solo una conseguenza; infatti, al Padre Nostro segue il gesto della pace. Pertanto, darsi la mano al Padre Nostro equivale ad anticipare il gesto della pace, sminuirlo, duplicarlo e confondere così i segni. Per esprimere l’unità fraterna, la liturgia propone invece di cantare il Padre Nostro o recitarlo ad alta voce, cioè con l’unisono delle voci (OGMR, 81).
La seconda ragione è di ordine disciplinare e quindi tocca la comunione ecclesiale: l’introduzione stabile di un nuovo gesto liturgico è compito della Conferenza Episcopale (con una maggioranza dei 2/3!), che necessita anche l’approvazione della Santa Sede (perché la liturgia è patrimonio di tutta la Chiesa); per cui, a nessuna autorità minore (fosse anche il vescovo locale!) è concesso proporre o imporre un gesto non previsto dal rito liturgico. Può quindi capitare che alcuni fedeli avvertano il gesto come un abuso e un’imposizione che sono costretti a subire.
La terza ragione è di ordine pratico: non raramente dare la mano al vicino è causa di distrazione, esattamente il contrario di ciò che intende l’invito del sacerdote.
Ciò che comunque è fuori luogo sono le “braccia reggi-cocomeri”, basse e allargate, quasi volessero ricevere il Padre, anziché alzarsi verso di Lui: Dio, infatti, nessuno può com-prenderlo! Pertanto, resta sempre valido l’invito del sacerdote: «Obbedienti…»!
Elisabetta Casadei
* Le catechesi sono raccolte nel volume: E. CASADEI, Tutto (o quasi) sulla Messa, Effatà 2014.