L’altro ieri, festa di sant’Antonio di Padova, il pensiero di più d’uno di noi forse è andato al miracolo eucaristico da lui operato circa ottocento anni fa nell’attuale piazza Tre Martiri, qui a Rimini. Quel miracolo sancì la sconfitta dell’eresia di Bonvillo che non credeva alla presenza di Cristo nell’Eucaristia. Oggi un’altra eresia – ma di tipo “pratico” – semina strage in tutta la società europea, e quindi anche in questa nostra comunità riminese. È l’“eresia dell’individualismo”, che si pone a 180 gradi agli antipodi di una società ispirata all’umanesimo eucaristico, e che aggredisce come un virus micidiale ogni umana convivenza. Sarà possibile reagire a tale epidemia, se noi cristiani mostreremo con fatti di vita la bellezza di una esistenza e di una società ispirata al segno del “pane spezzato”. E faremo toccare con mano la valenza sociale dell’Eucaristia. Non si tratta quindi di un disegno ‘confessionale’ o ‘teocratico’. Infatti l’Eucaristia non fornisce solo la forza interiore, ma anche il progetto di una città che si voglia veramente umana. Un progetto fondato su tre verbi ‘reggenti’: accogliere, condividere, unire.
1. Accogliere. Gesù amava il suo paese, la città santa, Gerusalemme, la sua gente. Ha amato tutti, anche quelli che lo hanno rifiutato. Certo, non ha risolto tutti i problemi della sua terra. Però non è mai passato affianco a nessun povero, non ha mai bypassato nessun problema del suo territorio senza fermarsi, senza chinarsi e ‘spezzarsi’ in due pur di esprimere tangibilmente l’amore forte e tenero del Padre per gli ‘scartati’ dalla società. E non solo ha insegnato ai suoi a fare altrettanto, ma ha detto senza peli sulla lingua su quale programma un giorno saremo giudicati: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. Ero malato e mi avete visitato. Ero straniero e mi avete accolto”.
Penso che nessuno di noi possa dire di avere incontrato Gesù per le strade della nostra città. E invece, sì: io, noi, tutti noi lo abbiamo visto sia nella veste di tante persone altruiste e generose, per lo più umili e oscure, piene di bontà, capaci di sacrificio, gratuite e disinteressate. Sia nei panni dei poveri, degli ammalati, degli immigrati, dei disoccupati, dei giovani senza futuro. E di questi conosciamo anche il domicilio: i tossicodipendenti di Santa Aquilina, i senza-tetto della Capanna di Betlemme, i nomadi di Via Islanda, i poveri della Caritas diocesana, gli ospiti delle mense della Madonna della Scala o di Santo Spirito, gli immigrati di Casa Betania, i disoccupati che bussano al Fondo per il lavoro, le ragazze che lottano per uscire dalla schiavitù della prostituzione… In questi anni io ho sperimentato tanto dolore, ma anche, accanto al dolore, ho incrociato tanto, tanto amore. E chi di noi può negare di avere incontrato almeno qualche volta, se non tutti i giorni, sia il Gesù buon Samaritano, sia il Gesù povero Lazzaro?
2. Condividere. Ma possiamo e dobbiamo fare di più. Con i poveri non possiamo mai sentirci in pari. Siamo sempre in rosso, e rosso acceso. Un giorno Gesù ha detto: “I poveri li avrete sempre con voi”. Non lo ha detto con tono rassegnato e rinunciatario. Non ha consacrato la povertà come realtà inevitabile o, peggio, voluta da Dio. Tutt’altro. Lo ha detto con fare provocatorio e responsabilizzante. Sì, con i poveri possiamo e dobbiamo fare di più e meglio. Vorrei qui richiamare due questioni in gran parte diverse, ma ambedue critiche e sempre più drammatiche.
La prima è l’emergenza-immigrati. Purtroppo soffia forte il vento dell’intolleranza, e anche le nostre comunità cristiane ne vengono investite. Si sente parlare di ’invasione’, di ‘respingimenti’, di “lasciar affogare nel Mediterraneo”… Certo, lo Stato ha il dovere di dettare regole più precise che mirino ad inserire davvero e servano a guidare bene chi arriva, a rispettare a sua volta la nostra realtà. Ma non possiamo guardare chi bussa come “qualcuno che ’ci sottrae’ dei beni”. Invece che qualcuno da abbracciare. Fratelli che arrivano a mani vuote e non hanno più un posto dove tornare.
Ritorno perciò all’inquietante parola di Gesù: “Ero straniero e mi avete accolto”. Altre parole non servono. È ora di passare dall’attico delle roboanti dichiarazioni di una cosiddetta civiltà che si dichiara multirazziale, multiculturale, multireligiosa e multinonsoché… È ora di bypassare il pianerottolo litigioso delle contrapposizioni polemiche e pretestuose, per scendere al piano-terra dei fatti concreti. Una domanda comunque dovrebbe pungerci. Perché noi, che in passato abbiamo coniugato il verbo accogliere alla forma passiva – quando noi stessi avevamo bisogno di essere accolti – facciamo tanta fatica a coniugarlo alla forma attiva, quando altri oggi ci chiedono di accoglierli? Certo, nessuno ha la ricetta magica per una questione tanto complessa. Però se tutti facciamo la nostra parte – ma proprio tutti: istituzioni civili, forze sociali, agenzie culturali ed educative, comunità parrocchiali, cittadini singoli e associati – possiamo offrire accoglienze che abbiano sapore di umanità. Pertanto mi sento di rinnovare l’appello rivolto due anni or sono da Francesco e da me rilanciato, per un impegno di accoglienza generoso, perché ogni parrocchia e realtà ecclesiale dia, per quanto possibile, l’esempio. Tanto più che il numero dei richiedenti asilo cresce ogni giorno. A comune incoraggiamento, rilevo come le esperienze con un numero limitato di persone accolte e collegate con le comunità ecclesiali e civili del territorio, garantiscano una migliore ‘integrazione’: è il secondo passo dopo l’accoglienza.
L’altra questione concerne la crisi del sistema bancario. Penso in particolare alla “Carim”. Al riguardo, non possiamo non riaffermare i sacrosanti principi fondamentali come la salvaguardia della dignità della persona umana e la tutela dei diritti civili, e del lavoro! Il lavoro non è carità, ma giustizia e dignità. Inoltre una banca deve sempre mettere al centro del proprio operato il bene comune, di tutti e di ciascuno. Non quello di gruppi di pressione o di interesse, di corporazioni o gruppi di potere di qualunque tipo, favorendo così lo sviluppo della democrazia economica e scoraggiando la formazione di monopoli e le concentrazioni economiche e finanziarie. Occorre, poi, favorire la crescita e lo sviluppo economico del territorio, e non le rendite di posizione o la speculazione – finanziaria, immobiliare, fiscale – avendo sempre una forte attenzione alle ricadute occupazionali, sia all’interno della banca sia nel territorio nel quale opera. Pertanto va scrupolosamente evitato il serio pericolo che, a pagare il costo salatissimo di una crisi di drammatiche proporzioni, siano ancora una volta i più deboli.
3. Unire. Un terzo significato sociale dell’Eucaristia è non solo quello di unire i cristiani con Dio e tra di loro, ma di alimentare lo spirito di comunione e di servizio verso tutti.
A tal proposito, visto che siamo all’inizio della stagione estiva, ritengo opportuno lanciare un messaggio circa lo stile con cui vivere il tempo del riposo: senza puntare alla ricerca di eccessi, ma mirando a ricostruire la trama delle relazioni, che gestiamo forse in maniera più frettolosa quando siamo impegnati con il lavoro. Per chi, poi, questa estate lavorerà, è importante che il lavoro sia occasione di incontro e crescita personale e non esasperata ricerca del profitto ad ogni costo, tenendo conto anche di quanto lavoro sommerso o poco retribuito che purtroppo c’è ancora. Accogliere i turisti in un atteggiamento di apertura vera, significa non dimenticare mai che quanti abbiamo davanti sono persone, piuttosto, e non tanto ’quote economiche’ da riscuotere.
Fratelli, sorelle, amici, una città diversa è possibile. Una città più vivibile per tutti, a cominciare dalle periferie territoriali e umane, è realizzabile. Una città dove si condividono angosce e speranze. Dove i sogni di umanità piena si trasformino in grandi progetti, i progetti in efficienti cantieri, i cantieri in opere concrete e tangibili. Una città fatta da persone dalle mani pulite e dalle volontà unite, sotto un arcobaleno intramontabile di pace e di giustizia. È chiaro: una strategia del genere non può certo essere il frutto della logica del profitto a tutti i costi, una logica “anti-eucaristica”, che genera egoismo, ingenera tensioni, allarga la forbice tra ricchi e poveri. C’è bisogno, dunque, di un nuovo ‘miracolo’ eucaristico: far sì che i cittadini, da indifferenti gli uni verso gli altri o da concorrenti gli uni contro gli altri, diventino uguali e solidali, nella ricerca convinta e costante del bene comune.
Che il Signore ci benedica – dica-bene di noi e ci aiuti a fare-bene – alla nostra Città e a quanti bussano alle sue porte!
+ Francesco Lambiasi