In questi anni si consuma, tra l’altro, anche la fine dell’unità politica dei cattolici, che si distaccano dal partito di ispirazione cristiana (la Democrazia cristiana), iniziando una stagione di scelte politiche non più univoche, che mettono in discussione la fisionomia di molte associazioni, a cominciare dalle Acli: nel 1970, all’indomani del XIII Convegno nazionale di studio a Vallombrosa sul tema Movimento operaio, capitalismo, democrazia il presidente Emilio Gabaglio lancia “l’ipotesi socialista”, provocando la durissima “deplorazione” di Paolo VI (19 giugno 1971), che porta all’immediato ritiro degli assistenti ecclesiastici dell’associazione.
Quella che subisce più gravemente il contraccolpo dei tempi tanto mutati è l’Azione cattolica. La scelta religiosa, come impegno laicale di evangelizzazione in collaborazione con la gerarchia, così come viene affermata nello Statuto del 1969, è sentita troppo arretrata da quanti privilegiano l’azione dei “gruppi spontanei”, che si pongono ai margini e spesso in polemica con le indicazioni della gerarchia.
Inoltre, la struttura organizzativa più accentrata sembra non dare spazio sufficiente ai movimenti per ambiente (lavoratori e studenti). In una riunione, per certi versi drammatica, della Giunta di Azione cattolica del 1970 studenti e lavoratori dichiarano la loro intenzione di muoversi autonomamente: il Movimento lavoratori di Ac con don Luigi Tiberti aderirà alla Gioc (Gioventù operaia cristiana), che si era appena costituita a livello nazionale sul modello della Joc francese e Gioventù studentesca ( il Movimento studenti di Ac) aderirà a Cl (Comunione e liberazione), fondata a Milano l’anno prima da don Giussani.
Sotto la guida di don Giancarlo Ugolini l’esperienza di Cl avrà a Rimini un suo punto di forza, coinvolgendo un vasto numero di persone e realizzando opere che, come nel caso del Meeting per l’amicizia tra i popoli assurgono alla ribalta nazionale..
Erano scelte che finivano per svuotare i rami giovanili di Azione cattolica, ma che trovano comunque l’avvallo del vescovo, convinto sostenitore di una linea di pluralismo pastorale: “Il vescovo – afferma in una Tre giorni del presbiterio – non si è mai lasciato scoraggiare dalle difficoltà e dai problemi che in qualche modo questi gruppi pongono, perché sa che gli ambienti nei quali operano (il mondo del lavoro e la scuola) sono oggi particolarmente difficili per l’evangelizzazione e richiedono anche tentativi ed esperimenti nuovi”.
L’attenzione alle “speranze e alle angosce” degli uomini, che il Concilio aveva raccomandato, infatti, non può non richiedere nuove modalità pastorali, che si facciano attente ai problemi del mondo delle fabbriche, della famiglia (è del 1974 la legge che introduce il divorzio), del mondo del turismo che sta decollando – scrive il vescovo – “sulla fatica disumana dei lavoratori stagionali”. Rimprovero che provoca lo sdegno di quanti sono convinti che lo sviluppo economico debba essere lasciato nella più completa autonomia, senza condizionamenti di carattere etico e giuridico.
Il “vento” del Concilio richiede anche di affrontare in modo diverso il problema dei poveri, passando dall’assistenza alla condivisione. I criteri di fragilità non possono tenere conto soltanto della mancanza di denaro, ma anche della solitudine, della incapacità di affrontare gli eventi negativi della vita, dell’esclusione sociale…
Si cerca allora di diminuire il distacco tra chi si trova in difficoltà e chi presta aiuto, impegnandosi nel recupero e nella prevenzione, in uno sforzo di integrazione, che cerca anche la collaborazione con le istituzioni pubbliche. Una delle prime comunità che in Italia si muovono in questa prospettiva è la Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi nel 1971, che apre decine di case-famiglia in tutto il mondo e mette in atto mille iniziative per porre un argine alla emarginazione e alla povertà, seguendo il principio della condivisione diretta. In questo servirà come modello alla trasformazione di antiche istituzioni come l’Istituto San Giuseppe, o alla nascita di nuove, come la Casa S. Anna, il Movimento per la vita “Alberto Marvelli”, il Centro di aiuto alla vita…
Nel 1971, istituendo la Caritas, Paolo VI parla di “pedagogia della carità”, esortando ad andare oltre la pura distribuzione di aiuti materiali, per far crescere nelle persone e nelle comunità il senso cristiano della carità, che non è un “aspetto”, ma deve essere il “luogo privilegiato” dell’azione pastorale. “Ripartire dagli ultimi”, infatti, non è un’ opzione tra le altre, ma è esigenza intrinseca del Vangelo.
L’anno successivo nasce anche in diocesi, presso la Casa del clero, il primo piccolo nucleo di quella che verrà fondata sei anni dopo come Caritas diocesana, impegnata da quel momento a soccorrere le antiche e le nuove povertà, in qualsiasi aspetto si presentino, in uno sforzo mai appannato di accoglienza e di integrazione. (18 – continua)
Cinzia Montevecchi