Siamo quasi al giro di boa. Il periodo di “ferie forzate” per la marineria riminese si è già, per metà, consumato. Il fermo biologico è partito il primo agosto e con la novità, rispetto agli anni passati, dell’allungamento ai 45 giorni lavorativi, ciò vuol dire che le imbarcazioni ritorneranno in mare il primo ottobre. È stata un’estate tormentata, questa, per il settore ittico nostrano. Sin da giugno si sono mobilitati i sindacati (Flai Cgil in prima linea), il neo eletto assessore alla Pesca Juri Magrini e i vari rappresentanti di settore in un braccio di ferro con il Governo e la Regione che, a loro dire, ha troppo a lungo sottovalutato la crisi di settore.
Al primo agosto sul sito di informazione provinciale newsrimini.it si leggevano dichiarazioni (dal Consiglio provinciale che approvò all’unanimità un ordine del giorno riguardo alla crisi della pesca) a metà tra una dichiarazione di guerra e un documento di richieste di pace. “Una cassa integrazione per i lavoratori, ammortizzatori sociali per gli armatori e la possibilità di usare i fondi residui degli anni passati sono le richieste che la provincia fa a Governo e Regione. L’impegno a monitorare gli sbocchi al mare e creare un tavolo di lavoro provinciale per il rilancio soprattutto della piccola pesca. Il Consiglio provinciale ritiene inoltre insufficienti i 22 milioni di euro messi a disposizione dal decreto sviluppo del governo per i 60 giorni di fermo pesca e auspica l’attivazione di uno stato di crisi del settore, per poter attingere ad agevolazioni previdenziali”. Poi remi in barca, barche in porto e tutti a casa.
Ma cosa succede in città quando la pesca si ferma? Grossisti, mercati, ristoranti e semplici consumatori che cosa fanno?
In realtà non è proprio tutto fermo. Nel solo porto di Rimini ci sono una ventina di imbarcazioni che tutte le notti vanno in mare e al mattino portano in banchina le loro belle cassette fresche.
Si tratta di piccole barche, in media 7-9 metri (la più grande arriva a 11 metri) che quotidianamente sbarcano dai 20 ai 30 kg di pesce. La barca più grande di questa piccola flotta porta a casa dai 4 ai 5 chili di sogliole, circa 20 chili di canocchie e dai 10 ai 15 chili di mazzoline. Dai 400 ai 600 chili al giorno di pesce, dunque. Poca cosa se si pensa non solo ai numeri che le grandi imbarcazioni spostano ma anche alla domanda del mercato della ristorazione e quello al consumo. Tendenzialmente questi pesci vengono venduti al mercato ittico mentre 6-7 imbarcazioni hanno l’autorizzazione per vendere in banchina nel classico sistema “produttore- consumatore”. Ci sono poi, sempre a Rimini, altre 13 piccole barche che dal mare portano le vongole. Perché loro sì e gli altri no?
Presto detto. Questi sì, perché fanno un tipo di pesca (nassare, rete di posta) che non danneggia i fondali marini e perché la loro modesta dimensione non muove quantità tali da creare danno o spopolare l’Adriatico. A tal proposito, sulle potenziali lesioni dei fondali marini per mano delle grandi imbarcazioni, lo scorso luglio Maurizio Nanni (Udc) in Consiglio Provinciale presentò un testo nel quale denunciava alcune metodologie di pesca dannose e proponeva di “dichiarare illegali e combattere con tutti i mezzi necessari, una volta per tutte, pesche effettuate con ramponi e reti munite di catene”. Un problema, questo, spesso sottovalutato ma che ha la sua importanza nella tendenza all’impoverimento del nostro mare.
Ma torniamo alle nostre 20 piccole imbarcazioni. I loro 600 chili al giorno non bastano di sicuro!
Bisogna, però, fare attenzione. Tendenzialmente si pensa che durante il periodo di sosta per mercati, pescherie e ristoranti di Rimini e circondario ci sia solo del pesce congelato. Questo è un errore. Infatti se è vero che dal primo agosto le reti rimarranno ferme da Trieste a Bari è altrettanto vero che Ionio e Tirreno sono in attività così come le Isole. In questo caso il pesce che si trova al mercato sarà fresco ma costerà un po’ di più per effetto del trasporto (dal 10 al 30%). Al mercato ittico di Rimini si trova di tutto e per ogni tasca: acciughe che arrivano da San Benedetto del Tronto e poi pesce azzurro dal Tirreno. C’è poi il pesce che arriva dall’estero. Le associazioni dei consumatori allarmano sul pangasio del Mekong che viene spacciato per cernia; sul polpo del Vietnam spacciato per italiano, per i gamberetti del Mozambico e della Cina e per l’ halibut atlantico come sostituto della sogliola.
Come difendersi da tutto questo? Dalla possibilità che lo straniero venga spacciato per nostrano?
Ciascuna pescheria dovrebbe esporre dei tesserini di rintracciabilità nei quali segnare sia la provenienza sia la metodologia di trasporto utilizzata. Questo perché il pesce può essere refrigerato (pesce fresco conservato nel ghiaccio durante il trasporto) oppure congelato. Recentemente Coldiretti ha proposto che l’obbligo del cartellino oltre a pescherie e supermercati venga allargato pure ai ristoranti. Attualmente nei menù dei ristoranti si leggono delle informazioni varie, generiche e a discrezione dei ristoratori. Può capitare, infatti, di leggere a corredo della descrizione di un piatto che “a seconda delle esigenze e possibilità verrano utilizzati prodotti freschi e/o surgelati” oppure nei ristoranti più quotati vengono specificate le provenienze tipo “gamberoni del Mediterraneo” ma in questo caso si tratta più di un “darsi un tono” da parte del ristorante.
Però la targhetta di pescheria o altro non è sempre sinonimo di completa chiarezza, perlomeno per il consumatore. Alessandra, che compra il pesce in pescheria, dice: “Io leggo, merluzzo del Mediterraneo ma il Mediterraneo è grande! E poi non ho mai trovato nessuna informazione sul fatto che potesse essere decongelato o meno”.
Insomma il consumatore è messo male, comunque. O mangia delle “bufale” oppure paga caro il fresco che arriva da lontano. In ogni caso vale la regola d’oro di mangiare quello che la natura, mare o terra che sia, offre. E vediamo di accaparrarci qualcuno di quei 600 chili quotidiani.
Angela De Rubeis