Ci sono cose che partono con buone intenzioni ma che invece di migliorare le cose le complicano e le confondono. Da qualche anno buona parte dell’opinione pubblica chiede di adeguare alla forma femminile i nomi di professioni e cariche. Una campagna – legittima e doverosa – per rivendicare la crescente presenza femminile in ruoli importanti ma che, senza adeguati riferimenti, ha portato a risultati controversi. A chi lavora nell’informazione capita di ricevere comunicazioni dove una donna che è primo/a cittadino/a per uno è il sindaco, per un altro la sindaca, per un altro ancora la sindaco. Ognuno ha la sua idea, ovviamente inconciliabile con le altre. Per non parlare di termini come Prefetta che saranno pure corretti ma un po’ ostici da digerire. Stop. Non voglio dare la mia opinione bensì cercare una soluzione. E allora visto che di riforme ogni tanto si parla, propongo di prevederne una linguistico-grammaticale che conferisca potere legislativo ed esecutivo all’Accademia della Crusca. Loro decidono e così si fa, piaccia o no, se no non ne usciamo più. Perché poi una volta che si cambia una cosa ci vuole tempo ad assimilarla. Per fare un esempio: fino al 2001 dicevamo al benzinaio “mi fai ventimila?”, senza bisogno di dire “lire”. Oggi diciamo “mi fai venti euro?” (che il cambio è quello) perché in sedici anni di euro ancora non abbiamo imparato a dire le cifre senza. Quindi facciamo pure i nuovi nomi femminili. Ma prima che la sindaco/a vada in pensione.
Il Caffè Scorretto di Maurizio Ceccarini