Scuola, ultima frontiera, Cesare Moreno, maestro di strada napoletano, lavora in questa terra di nessuno, formando educatori che stabiliscono delle relazioni tra i ragazzi e il mondo degli adulti, ora che scarseggiano le “grandi narrazioni” che hanno accompagnato la società del secolo scorso:come la famiglia e la politica.
Un mestiere difficile quello dell’educatore, spesso contro tutto e contro tutti, che Cesare esemplifica nella storia del colibrì.
“Un giorno la foresta va a fuoco e tutti gli animali scappano. Nella sua fuga il leone incontra un colibrì che va in senso contrario. Cosa fai, gli dice, non vedi che la foresta è in fiamme? Sì lo so, risponde lui, e io porto nel becco dell’acqua per spegnere l’incendio. Cosa potrà mai fare la goccia che tieni nel becco contro tutte quelle fiamme, chiede il leone. Io intanto comincio, risponde il colibrì, e riprende il suo volo”.
Abbiamo incontrato Cesare Moreno, a Rimini lo scorso venerdì (9 marzo) per partecipare all’incontro “Conflitti, partecipazione e sviluppo umano del territorio”, promosso dalle associazioni Vedo, sento parlo di Rimini e Libera Contro le mafie, con la collaborazione di Volontarimini. Insieme a lui Gloria Lisi, vicesindaco e assessore con delega al sociale del comune di Rimini.
Cesare Moreno parla per due ore spaziando dai problemi della scuola a quelli delle periferie, dai campi nomadi alla convivenza nei quartieri disastrati della sua Napoli.
“Viviamo in un periodo complesso – afferma Moreno – sono sparite le grandi narrazioni che hanno caratterizzato il mondo come lo conoscevamo e ora, per i ragazzi, tutto avviene nella scuola. Spesso mancano i fratelli, le famiglie sono poco presenti, e la scuola diventa l’unico orizzonte. Questo significa che se prima in una classe c’era un ragazzo problematico, oggi tutti sono problematici, perché riversano lì tutti i loro problemi”.
Come si affrontano questi problemi? Quali strumenti hanno gli educatori?
“La prima cosa è il silenzio. Quando io mi siedo di fronte a chi vive una profonda difficoltà non posso arrivare e fare calare la soluzione dall’alto, anche perché non posso avere la soluzione se prima non ho parlato con le persone e non le ho ascoltate. Spesso l’istituzione fa così, dà la soluzione dopo aver esaminato la realtà attraverso questionari e inchieste. Ma io non ho davanti a me un questionario, ma una persona, con i suoi problemi. Devo ascoltare, e devo avere il coraggio di dire: io non ho una soluzione, pensiamoci assieme”.
Questo è l’approccio dei maestri di strada, l’associazione nata nel 2003 dalle ceneri del progetto Chance, che tu stesso hai lanciato. Chi sono i maestri di strada?
“I maestri di strada sono maestri che a differenza di altri professori hanno un bagaglio molto leggero, perché sanno che incontreranno per strada le risorse di cui hanno bisogno. Per cui fanno della strada e dell’incontro per strada il perno della loro educazione. L’educazione si fa con il giovane che cresce, l’insegnante e l’educatore devono solo fare attività di mediazione tra il loro mondo, che non è ancora definito e quello degli adulti. Ci chiamiamo maestri di strada, ma in realtà vogliamo intervenire prima che il ragazzo abbia abbandonato la scuola e sia già per strada”.
Tu lavori e ti muovi nella periferia di Napoli, una zona sicuramente difficile, la situazione riminese è molto meno esplosiva, ma non mancano gli scontri e i risentimenti. Come si affrontano questi problemi?
“Come dicevo senza far calare la risposta dall’alto. So che a Rimini c’è un dibattito vivace attorno alla questione dei campi rom. Anche in altre realtà l’amministrazione ha portato avanti un progetto simile al vostro, ovvero la disseminazione dei nomadi in piccole aree all’interno del tessuto della città. Sulla carta è una buona soluzione, ma anche in questo caso non ci troviamo davanti a numeri. Per le persone non si può usare un metodo idraulico, per cui apri un rubinetto qui, ne fai andare un po’ di là e così via. Parliamo sempre di persone. Per tornare ad altre esperienze simili è capitato che alcuni Rom abbiano accettato, altri non abbiano voluto trasferirsi, o addirittura si siano trasferiti e poi ci abbiano ripensato o se ne siano andati i vicini. Ogni situazione va affrontata coinvolgendo i diretti interessati. Non dico che i campi siano la soluzione, ma la convivenza non si può imporre, si deve trovare il modo di raccontarla e viverla assieme. Nel mio quartiere a Napoli viviamo situazioni ancora più difficili, spesso nello stesso palazzo ci sono le famiglie del killer e quelle dell’ammazzato, e anche in quel caso bisogna ripartire da loro”.
Come, in che modo?
“Parlando, andando in mezzo a loro, facendoli partecipi. La nostra attività è come quella di Sisifo, costretto a fare un lavoro che sembra inutile per l’eternità. Infatti, per aver osato sfidare gli dei, Sisifo fu punito da Zeus a spingere un masso dalla base alla cima di un monte, ma, arrivato in cima, il masso rotolava a valle, e Sisifo ricominciava, per l’eternità.
Noi, ispirandoci proprio al suo mito abbiamo coinvolto le persone dei nostri quartieri a far rotolare una grande palla di due metri e mezzo di diametro dentro la quale ognuno metteva i propri fardelli, per un percorso nel quartiere. Questo gesto simbolico ha avvicinato le persone, che sono state assieme, che hanno condiviso le loro difficoltà per una parte del percorso”.
Anche il lavoro nella scuola è come il mito di Sisifo?
“Lo può sembrare, ma non significa che non ci sia soluzione. Prendiamo ad esempio il bullismo. Io rispondo sempre a chi mi chiede del bullismo che è un fenomeno che non mi interessa, perché non è, secondo me, catalogabile come fenomeno a sé, ma è la risultante dello stesso problema: ovvero che i ragazzi vivono tutte le loro esperienze nella scuola. Non hanno altri posti in cui misurarsi, in cui provare a intessere relazioni, a conoscersi, spesso anche in modo rude, perché fa parte della crescita. Il bullismo è l’ultimo atto di una lunga serie di processi che coinvolge tutta la vita del ragazzo, il problema non è la scuola. Anche in questo caso invece di punire e di far intervenire subito l’autorità e creare un caso bisognerebbe parlarne, farli confrontare con il problema e anche responsabilizzarli. Ma soprattutto ascoltarli”.
La scuola può essere fatta in modo diverso?
“La scuola deve essere diversa. Quando sento parlare di scuola montessoriana mi si rizzano i capelli, perché tutta la scuola dovrebbe essere montessoriana e non in altro modo. Il metodo utilizzato oggi è vecchio e superato. Si chiede ai ragazzi di comportarsi in un modo innaturale e poi ci si lamenta che non ci riescono. La scuola montessoriana è molto focalizzata sul corpo, sulla libertà dell’apprendimento, sui diversi tempi di ognuno ed è così che la scuola dovrebbe essere. E nonostante tutto ai ragazzi la scuola piace, così come le loro periferie. Ma non perché siano belle in sé, ma perché è il loro mondo, è la loro narrazione”.
È sempre una questione di narrazione, in fondo
“Sì. Noi abbiamo il dovere di raccontare una narrazione positiva. Se anche ci dicono che non c’è speranza, che l’ambiente è condannato, che la periferia in cui viviamo è orribile e non c’è via di fuga, dobbiamo dare ai ragazzi una visione positiva, perché altrimenti abbiamo già perso. Visione che spesso i ragazzi hanno già e che dobbiamo solo farci raccontare da loro. Dobbiamo collaborare, facendo del bene, ripartendo dalle nostre storie. Dobbiamo, per tornare alla storia iniziale, convincere gli altri colibrì a lavorare tutti assieme. Magari non portiamo dalla nostra parte il re della foresta, ma se diventiamo uno stormo possiamo domare l’incendio”.
Stefano Rossini