Giancarlo Morri, riminese, racconta in un libro gli anni della Linea Gotica, quando da bambino fu costretto, assieme alla famiglia, a fuggire fino a San Marino, per evitare i pesanti bombardamenti che colpirono Rimini
Sono tante, tantissime le storie di chi ha vissuto gli anni della Linea Gotica a Rimini. E non potrebbe essere altrimenti: in quel periodo, il territorio riminese è stato l’epicentro di una delle fase cruciali del secondo conflitto mondiale. Il ricco patrimonio di storie e testimonianze di chi, quel periodo, l’ha vissuto in prima persona, non può dunque passare inosservato, e nemmeno messo nel dimenticatoio. Anzi, deve essere valorizzato, raccontato continuamente, per conservare la memoria e rinnovare la nostra identità storica di riminesi. È ciò che ha fatto Giancarlo Morri, che durante gli anni della Linea Gotica era solo un bambino: nel suo libro C’ero anch’io – Quando i ricordi diventano Storia (Panozzo Editore, 2019), Morri racconta di quando fu costretto a scappare dalla casa di Miramare, con la famiglia, per sfuggire ai bombardamenti, rifugiandosi prima nell’entroterra e poi a San Marino. Riportiamo alcuni estratti di questa preziosa testimonianza.
“10 novembre 1943. Come uno stormo di neri uccellacci passarono sulla testa, venendo dal mare, aerei alleati per andare a bombardare Rimini. Fu il primo bombardamento aereo che la nostra città subì da parte degli alleati, nel corso della Seconda guerra mondiale. Mi trovavo a Miramare, dove abitavo assieme ai genitori, Giovanni Morri, Pasquina Cesari, ai fratelli Giuseppe, Luigi, Mario, Marilena.
Abitavamo in una casetta di un solo piano, senza corrente elettrica, su una sabbia dei Ceschina, situata a metà strada fra il viale Litoraneo e la linea ferroviaria Rimini-Ancona, all’epoca via Regina Margherita 21/a. La coltivazione dei pochi campi che attorniavano la nostra casa era effettuata dal babbo a tempo perso – lavorava a Rimini come spazzino – e da quella sabbia la resa era scarsa, il babbo seminava un po’ di grano e formentone (granoturco)”.
Rifugio a Casiccio, nell’entroterra
“Si decise di sfollare più verso l’interno e, con un carretto trainato da una cavalla bianca prestataci dal parroco, ci trasferimmo a Casiccio, piccola frazione del comune di Montecolombo, situata a metà strada fra Croce e Montecolombo, sul versante verso Valliano e Trarivi. A Casiccio trovammo alloggio in una casa al primo piano, mentre al piano terra vi era una stalla, nei pressi della casa colonica abitata da una famiglia soprannominata ‘Camson’.
Venne con noi la zia Maria, mentre il babbo rimase a Miramare per il lavoro che svolgeva a Rimini. Il piccolo villaggio di Casiccio era posto su un poggio da cui si godeva un bel panorama della costa riminese: vi erano quattro case, un capannone per il ricovero di attrezzi agricoli e una chiesina, antico oratorio e cappella privata. […] In quel villaggio non vi era la corrente elettrica, niente radio o giornali; in casa forse vi era l’immancabile calendario Luneri di Smembar, si andava col sole o col suono delle campane, si sapeva a malapena che giorno era, di certo vi era il rosario da recitare alla sera. Noi sfollati, con pochi soldi e poco da mangiare, assistevamo alle attività locali, i contadini si apprestavano a mietere il grano a mano con le grandi falci facendo dei covoni nei campi. Coi miei fratelli e i due figli dei ‘Camson’ si giocava a rimpiattino fra i covoni sparsi nei campi. […] Da quella amena e tranquilla collina assistemmo ai violenti bombardamenti su Rimini e sull’aeroporto di Miramare, del quale si vedeva bene l’ampia spianata con gli hangar e, di fronte, la mole della chiesa di Casalecchio; agli spezzonamenti notturni con bengala che illuminavano spettralmente la notte; ai duelli aerei fra le due parti in lotta, con gli aerei colpiti che precipitavano lasciando una coda di fumo nero e i piloti che si lanciavano appesi a bianchi paracaduti”.
L’arrivo del fronte e la fuga verso il Titano
“Con l’avvicinarsi del fronte di guerra anche a Casiccio si cominciarono a vedere dei tedeschi, ogni tanto facevano dei rastrellamenti e gli uomini validi del posto, appena ne avevano sentore, correvano a nascondersi in nascondigli predisposti in precedenza nei campi. In casa nostra vi era una stanza ‘segreta’ la cui porta d’ingresso era nascosta da un armadio, all’interno della quale vi erano dei letti per una permanenza più lunga. Non mi risulta che abbiano preso nessuno. Alcune volte militari tedeschi perquisirono in casa nostra, ma, viste due donne (zia e mamma) con dei bambini, non si impegnarono troppo, per nostra fortuna.
[…] La permanenza a Casiccio diventava di giorno in giorno più preoccupante: dalla parte del Conca avanzavano gli alleati con un fuoco micidiale, contrastati dal fuoco di grossi calibri tedeschi. Così fummo costretti a partire per San Marino. Il babbo ci aveva raggiunto da Rimini con una bicicletta con le gomme piene, percorrendo la strada per Montescudo, dove incappò in un posto di blocco e avendo ai piedi calzato un buon paio di scarponi, ricordo del suo periodo di leva militare, lo presero per disertore ed ebbe il suo bel daffare per convincerli del contrario; ci riuscì e lo lasciarono andare. Prima di partire seppellimmo in una grande buca scavata nei pressi, assieme ad altri sfollati, bauli e casse ripiene delle cose più utili, compreso il baule del corredo della mamma. A piedi iniziammo il trasferimento. II viaggio fu tranquillo fino a quando nella valle del torrente Marano (attraversandolo ne bevemmo le chiarissime acque) passammo davanti ad una batteria contraerea tedesca sorvolata in quel momento da aerei alleati. I serventi, tre o quattro, ci invitarono ad allontanarci di corsa, perché si preparavano ad aprire il fuoco. Arrivammo nella Repubblica di San Marino, la cui linea di confine era segnalata da grandi croci imbiancate con calce e composte con sassi e pietre sui campi e colline. Mio fratello Giuseppe ricorda anche di aver visto carovane di sfollati con animali e carretti vari che, come noi, cercavano scampo e rifugio a San Marino. Entrati nel territorio della ospitale Repubblica, trovammo riparo nella cantina di una casa colonica assieme ad altra gente già sfollata.
La zona era la frazione di San Giovanni. Il babbo ogni giorno andava su a piedi in città, dove le autorità di San Marino facevano distribuire qualche cosa da mangiare.
Rimanemmo rintanati forse per tre settimane, da quella cantina ricordo che sentivamo gli interminabili sibili delle cannonate, i cui proiettili passavano sopra le nostre teste per andare a cadere e scoppiare più lontano”.
[…] La liberazione e il ritorno a casa
“Una mattina che il babbo era tornato come al solito su in città, seppe che la zona era stata liberata con l’arrivo degli alleati. Al ritorno ci comunicò la lieta ed attesa notizia; raccolte le poche cose ci preparammo per il rientro in Italia. Il viaggio fu agghiacciante, constatammo che dappertutto la guerra aveva infierito in modo orribile, tutto era distrutto, le campagne piene di rottami e mezzi corazzati distrutti, militari tedeschi morti e ricoperti con un po’ di terra sul luogo dove erano stati uccisi, armi abbandonate in gran quantità, di ogni tipo, fucili, baionette, bombe a mano, granate inesplose. […] Dopo circa un anno di assenza e di vita randagia tornammo a Miramare nella nostra casa”.