Allo Sferisterio di Macerata aperta la stagione del centenario con un nuovo allestimento di Aida per la regia di Valentina Carrasco
MACERATA, 23 luglio 2021 – L’Egitto visto attraverso occhi europei. Uno sguardo, come si poteva avere all’epoca in cui Aida andò in scena al Cairo (1871), dove si mescolano l’interesse per una terra culla di civiltà e nello stesso tempo – inutile nasconderselo – la superiorità propria dei colonizzatori. Tuttavia lo spettacolo della regista argentina Valentina Carrasco (nata artisticamente con la Fura dels Baus), che ha inaugurato la stagione di Macerata, non assume mai contorni ideologici: aiuta, semmai, a riflettere su un periodo in cui erano già implicite le premesse di ciò che in seguito sarà evidente a tutti, in una lettura capace di assecondare le intenzioni verdiane. E, soprattutto, è vero teatro.
Nella scena disegnata da Charles Berga, dopo l’immancabile deserto iniziale con i suoi cumuli di sabbia, gradualmente si compone una raffineria petrolifera: sono gli stessi egizi a costruirla, portando sul palco tubature che vengono assemblate a vista. Da un lato, dunque, c’è la celebrazione delle “magnifiche sorti e progressive” alla base di quella tecnologia – siamo nel pieno della seconda rivoluzione industriale – che non riguarda solo gli europei, ma aveva contagiato pure il sovrano d’Egitto (Verdi compose Aida per celebrare l’apertura del canale di Suez voluta da Ismail pascià); dall’altro, in quei barili di petrolio, su cui volteggiano i danzatori, c’è già scritto tutto il drammatico futuro di quell’area geografica. A rendere ancor più netta l’impressione visiva tardo ottocentesca, anticipando quasi i primi del novecento (una suggestione che sembra alludere a quando, un secolo esatto fa, lo Sferisterio si aprì alla lirica proprio con un’Aida), contribuiscono gli splendidi costumi di Silvia Aymonino: divise militari dei guerrieri che ricordano lo stile coloniale, eleganti mise delle signore che rimandano a fasti parigini, ieratiche tuniche per i sacerdoti, vesti dagli scintillanti colori di matrice etnica per la popolazione etiope. Anche le coreografie di Massimiliano Volpini s’inseriscono nel tessuto drammatico senza divagazioni esornative, a partire dalla suggestiva apparizione dei danzatori che fuoriescono da un bozzolo di sabbia durante la preghiera della sacerdotessa.
Se nella messinscena tutto scorre senza forzature, appare invece più difficile far quadrare gli aspetti musicali, soprattutto per gli inconvenienti che pongono gli spazi all’aperto e lo Sferisterio più di altri, con l’interminabile larghezza del suo palcoscenico. Il direttore Francesco Lanzillotta ha cercato di supplire al difficile compito di ottenere la necessaria varietà dinamica, giocando sul contrasto fra i tempi: si è così adoperato per cambiare il più possibile le velocità, ma la volenterosa Orchestra Filarmonica Marchigiana non sempre l’ha assecondato a dovere. Migliore, invece, la risposta del Coro Lirico Vincenzo Bellini, ben preparato da Martino Faggiani. Sul versante vocale netta la superiorità delle interpreti femminili, a cominciare dalla giovane protagonista Maria Teresa Leva, che canta bene e gioca le sue migliore carte nelle tinte sfumate e nei pianissimi. Il mezzosoprano Veronica Simeoni punta soprattutto sugli aspetti spigolosi di Amneris e si abbandona alla fragilità del personaggio solo nella straziante invocazione conclusiva alla pace, presagio funesto di una fine imminente. Convincente e sicura la giovane Maritina Tampakopoulos, che imprime bel timbro sopranile al canto della sacerdotessa.
Per il tenore Luciano Ganci si trattava di un debutto e il suo Radames è apparso un po’ troppo ondivago nella gestione della voce: la gradevolezza dello strumento e il naturale istinto gli consentiranno, si presume, miglioramenti nelle repliche. Tradizionale nelle intenzioni, e comunque abbastanza espressivo, l’Amonasro di Marco Caria, ma non altrettanto convincenti sono apparsi i due bassi: Alessio Cacciamani, un po’ troppo fioco come gran sacerdote Ramfis, e Fabrizio Beggi, un re d’Egitto con qualche problema d’intonazione.
A fine serata, per gli applausi, sono comparse tutte le persone coinvolte nell’allestimento: solisti, orchestrali (cui vanno aggiunti anche i componenti della banda Salvadei), coristi, danzatori e maestranze. Un numero enorme: specchio eloquente del dramma che durante la pandemia ha coinvolto i tanti lavoratori dello spettacolo.
Giulia Vannoni