Diceva Sant’Agostino che “le città sono fatte dalle persone e non dai palazzi”. L’anima, l’essenza, il genius di un luogo è la somma delle persone che lo abitano e non un derivato della cifra stilistica, dei suoi confini o delle sue vicende. Nel nostro particolare caso ne consegue che ogni riminese, dovunque egli si trovi, porta con sé un po’ della sua terra, della sua riminesità. Noi, un pezzo della nostra città siamo andati a trovarlo a Brescia, più precisamente a Cologne Bresciano, un piccolo borgo proprio al limitare della Franciacorta, quella zona fertile e ricca di ottimi vini a metà strada tra il capoluogo e il lago d’Iseo. Qui, in una grande magione circondata dai vigneti, vive Nelson Cenci. Forse il nome – per quanto originale – non farà scattare nella memoria immagini di grandi personaggi o di illustri cittadini insigniti di onorificenze e medaglie, ma questo solo perché Cenci appartiene ad una Rimini che oramai non esiste più.
Ma aggiungiamo qualche particolare.
Menzionando il grado, Tenente Cenci, già qualche ricordo si muove, e precisamente quelli della campagna di Russia, del ripiegamento degli Alpini, dei cinque mesi di continue marce forzate, a 42 gradi sottozero nell’inverno tra il 1942 e il 1943.
“Il tenente Cenci, sorridente, mi aspettava in piedi nella sua divisa pulita e con il passamontagna bianco risvoltato intorno al capo come il turbante di un indiano”. Così lo ricorda lo scrittore Mario Rigoni Stern nelle prime pagine de Il Sergente nella neve. E la figura che accompagna il sergente Rigoni lungo tutto lo svolgersi degli eventi del libro non è solo un personaggio letterario ma una persona in carne ed ossa. Un uomo oggi sulla novantina – ma vivace e molto attivo – che mi ha atteso sulla porta ancora nello stesso modo, in piedi e sorridente, per raccontarmi la sua vita davanti ad un bicchiere di grappa ed un caffé, come da protocollo alpino. Dopo i convenevoli si è seduto ed ha iniziato a parlare. Ne è uscito un flusso di ricordi che avrebbe fatto impallidire Joyce. Una vita, anzi, dieci vite trascorse in giro per l’Italia e l’Europa, passando anche per luoghi e momenti tragici in cui tutto sembra sul punto di fuggire per sempre.
Un riminese tra gli alpini
All’inizio Rimini è solo lo sfondo di un’infanzia che presto si sposta sull’Appennino tosco-romagnolo, dietro la professione della madre, insegnante elementare. E il primo incontro con la montagna sarà per lui decisivo e indelebile. Nel 1930 si trasferisce col padre a Milano dove prosegue la sua vita tra studio e sport. Dopo il liceo si iscrive a Medicina, poi… la guerra. Nel 1940 decide di arruolarsi negli Alpini.
Un riminese tra gli alpini? Sembra il titolo di un libro di Mark Twain, e invece è una strana realtà! Così strana che ci incuriosisce.
“Beh – racconta Cenci – mare e montagna non sono così diversi come si può pensare. Al di là della tecnica necessaria sono due luoghi che si affrontano nello stesso modo. In barca in mezzo al mare, o durante una lunga passeggiata verso le cime, si vive comunque nella solitudine, nel silenzio, in intima comunione con un ambiente non facile ma che permette di scoprire un’altra e più profonda essenza”.
Ma nel 1940 la scelta degli alpini non riguarda solo la montagna, ma anche la guerra. Altri tempi, altri pensieri. Oggi l’idea di arruolarsi non sfiora nessuno, ma per Nelson, come per molti altri ragazzi, era un modo di servire il paese.
“Per noi alpini – racconta – i russi erano avversari, non nemici. Spesso, durante le lunghe notti gelate, li immaginavo con i nostri stessi desideri, la voglia di tornare a casa. Persone come noi, insomma, ma dall’altra parte”.
Questo pensiero di fratellanza, pur in mezzo all’insensatezza e alla tragedia della guerra, lo accompagnerà per tutta la durate del suo servizio, e ancora oltre. Molti anni dopo, quando oramai la Russia è solo un lontano ricordo, a Courmayeur Nelson guarda la neve cadere e pensa che quella neve che scende è la stessa vista e calpestata in Russia: un solo mondo, una sola gente. Ma nel ’42 c’era solo la guerra, e il freddo, e le lunghe marce che finivano a sera, quando gli alpini si fermavano e si contavano. E sempre mancava qualcuno all’appello.
“In certi momenti ci lasciavamo andare sulla neve, e quel freddo sembrava abbracciarci e invitarci a dormire”.
“La mia Rimini, che delusione!”
In quei giorni durissimi fece la conoscenza di Mario Rigoni Stern, cementando un’amicizia che sarebbe durata fino alla morte dello scrittore, lo scorso anno. E proprio il sergente nella neve racconta le vicende di quella ritirata, conclusasi con la durissima battaglia di Nikolajevka del 26 gennaio, con la quale gli alpini ruppero l’accerchiamento delle truppe sovietiche. In quello scontro Cenci fu ferito gravemente e riportato in Italia. Da qui a Milano, poi – dopo la distruzione della sua casa nel 1943 – di nuovo a Rimini.
“Oggi non riconosco più Rimini. Sono tornato tante volte, ma la città oggi è diversa. Ogni ritorno era per me una delusione”.
I ricordi sembrano non finire mai. Si salta dal negozio di stoffe dello zio, “Le 4 stagioni” in piazza Tre Martiri – o piazza Giulio Cesare, come precisa Nelson – alle donne russe che ospitavano e accudivano i feriti.
“Ricordo la luce che filtrava dalle finestre, mentre le donne filavano, e le giornate che passavano lente. Quelle donne che ci accudivano, forse nella speranza che qualche donna lontana facesse lo stesso con i loro uomini”.
Il Sergente della neve
Tutto scorre tranquillamente sino al 1954, quando esce la prima edizione del Sergente nella neve. È un’esplosione di memoria.
“Ho subito telefonato a Mario. Ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo delle nostre vicende, di quei mesi durissimi. Da quel momento abbiamo preso a vederci una o due volte l’anno”.
E mentre la vita normale scorreva, tra lavoro e soddisfazioni, Nelson non dimenticava gli alpini, la guerra e tutte le esperienze. All’inizio degli anni ’80 comincia anche lui a scrivere e a riportare le memorie della campagna russa e della sua vita. Nel 1980 la sua prima pubblicazione Racconti in prima persona, nel 1981 Ritorno con la prefazione del suo sergente maggiore Mario Rigoni Stern; nel 1984 Le stagioni lontane; nel 1985 I grandi silenzi, seguito due anni più tardi da I giorni della solitudine, e nel 1990 Quello che resta in noi. Fino agli ultimi due volumi: Natali di neve (1991) e Il passato che torna(2000). I momenti importanti della vita diventano un pretesto per reincontrare vecchi amici.
“A 65 anni sono andato in pensione. E ho deciso di lasciare Varese (dove lavorava come primario Otorinolaringoiatria all’ospedale, ndr) per venire qui a Cologne Bresciano, perché di questa zona erano gli alpini che mi salvarono quando fui ferito”.
Ed è così che sceglie la sua terra, il luogo in cui vivere. Per riconoscenza, per rispetto e per la sua memoria. Qui, insieme alla figlia Giuliana, trasforma un vecchio casolare in un’accogliente residenza, e dà inizio ad una nuova vita, quella dell’Azienda Agricola La Boscaiola, che produce vini, spumanti e grappe. D’altronde, siamo in Franciacorta.
Trovare un filo conduttore in una vita così lunga? “Non so. Mi guardo indietro e vedo una vita piena di eventi, e di sofferenze. Eppure tutte queste sofferenze mi hanno aiutato, mi hanno forgiato, mi hanno avvicinato a persone che sono state per me molto importanti, prima tra tutte Mario Rigoni Stern, che oggi è quella che mi manca di più. Vede, spesso mi chiamano nelle scuole per raccontare quello che ho passato, e io mi accorgo che nonostante molti studenti non conoscano le cose di cui parlo, mi ascoltano volentieri, sono curiosi, vogliono sapere. Perché conoscere queste cose è l’unico modo per guardare agli altri in modo diverso, per essere più tolleranti, e soprattutto per riuscire a capire e giustificare le azioni degli altri anche quando a noi sembrano strane e assurde. Da questo, e solo da questo, si può arrivare al perdono. Oggi la vita è molto diversa. Pensi che io venivo a Rimini, da Milano, tutte le estati in bicicletta. Non sono contro la tecnologia e la scienza, ma penso che bisognerebbe recuperare un rapporto più vero con la natura. Io ho sempre scelto la terra. Che fossero delle buon’ore di passeggiata in montagna, un’uscita in barca, o anche una vita tra le vigne e le piante. Ritorno con la mente a quell’inverno a Courmayeur, quando cominciò a nevicare, e quei fiocchi mi ricordavano la stessa neve che tanto ci aveva angustiato in Russia. Sono anche tornato nel luogo dove fui ferito, ad Arnautovo, a Nikolajevka. Li ho visti in estate, e tutto sembrava diverso. Questo è quello che cerco di fare, ora, nelle scuole, aiutare a ricordare. Anche se qualche volta i miei ricordi si confondono, sono passati talmente tanti anni!”.
Anche io ho un ricordo. Il mio è un ricordo di scuola. La lettura de Il sergente nella neve. Al tempo tutto era così lontano, distaccato, e i nomi che leggevo non erano altro che una serie di caratteri, un pugno di descrizioni e poco più. Oggi rileggo quel libro con tutt’altro trasporto. Ci vedo in mezzo le persone, le sofferenze, e soprattutto un mondo spazzato via e scomparso, nel bene e nel male. Un mondo in cui i ricordi non si incastrano più, come in quei giochi per bambini con le forme geometriche. Tutto rimane fuori dalla scatola. Si guardano le forme, ma non si sa più dove poterle riporre.
Stefano Rossini