Che cosa dobbiamo imparare da questa esperienza dura di scuola di vita? Cosa rimarrà o cosa dovremo cambiare della nostra vita comunitaria intorno alla parrocchia? La prima puntata di una inchiesta de ilPonte sulla fede dopo il Covid-19.
Territorio,Vangelo e relazioni umane
Spesso si sente dire che non sarà possibile e neppure auspicabile tornare a come prima di questa emergenza sanitaria che, come un ciclone, si è abbattuta anche sul nostro Paese. Ciò è vero, ma non credo sia da demonizzare il desiderio autentico di tornare alla “normalità”. Mi riferisco in particolare, per fare un esempio, anzitutto a potere incrociare gli altri “senza mascherina”, in modo che si possa vedere il “volto”, segno della persona, agli incontri anche in ambito ecclesiale finalmente in diretta e non solo sui social, alla possibilità di celebrare l’Eucaristia, momento fondamentale per la vita di una comunità cristiana, e soprattutto i funerali in modo comunitario, forse l’aspetto più drammatico e avvertito come disumanizzante.
Ci siamo resi conto in questa emergenza anche della accresciuta marginalità della Chiesa e, più in generale, della dimensione spirituale dell’uomo. Su questo, come Chiesa e come persone, dovremo certamente riflettere. Ci siamo resi conto, però, anche della importanza per tanti dei piccoli segni che quassù, nella zona pastorale “La Trasfigurazione” tra Marche e Romagna, abbiamo cercato di porre: le chiese sempre aperte, le riflessioni sulle letture bibliche del giorno diffuse attraverso i social, le campane suonate in tutte le 27 chiese della nostra zona alle 12 di ogni domenica, la presenza di noi preti nelle chiese nel tempo in cui c’è di solito la Messa festiva, la spesa portata nelle case o i viveri della Caritas ai poveri. Certo, piccoli segni ma di una presenza che alla gente ha fatto bene.
Che cosa dobbiamo imparare da questa esperienza dura di scuola di vita? Su cosa dobbiamo puntare? Anzitutto il recupero delle relazioni umane, nella loro normalità. Molte persone, specialmente anziani, si sono sentite di fatto sole e impaurite: il recupero di rapporti è la cosa fondamentale. Il rischio evidente che questa emergenza lascia in eredità è che si tenti di fare a meno del “prossimo”, della comunità, quasi potessimo vivere individualmente.
In secondo luogo (e per le nostre zone collinari e ancora più evidente) il recupero dell’amore al territorio. Nel bene e nel male in questo tempo abbiamo visto sulle strade più animali che uomini e la natura, grazie anche alla primavera, è davvero esplosa di vitalità. Abbiamo tanto da imparare e da valorizzare ancora di più, umanamente e pastoralmente, in questo campo della bellezza e della utilità della natura.
Infine diventa ancora più urgente, almeno nelle nostre zone, un nuovo annuncio del Vangelo. Solo pochi in questo tempo ci hanno manifestato il bisogno e la nostalgia della Messa. È forse il segno che la nostra società, oltre a perdere il senso del prossimo, abbia perso prima ancora il senso di Dio? Anche nel campo della catechesi presacramentale si è tentato di fare qualcosa, ma probabilmente questo periodo sarà ricordato per certi aspetti anche come una grande parentesi nella vita ecclesiale e di fede. Tornerà tutto come prima? Ne dubito. Ma se questa sarà un’ulteriore spinta perché i cristiani riscoprano la fede e annuncino il Vangelo, sarà, senza dubbio, meglio di prima!
don Tarcisio Giungi
Moderatore della Zona pastorale la Trasfigurazione
Riscoprire l’incontro con Gesù
Questo periodo di quarantena ha mostrato alcuni punti deboli della prassi cristiana delle nostre comunità.
Il primo aspetto che è emerso da questa quarantena è il centralismo della messa, non tanto come culmine e fonte della vita cristiana, ma come precetto da soddisfare. Diverse persone in questo periodo mi hanno fatto richiesta della sola comunione. Questo la dice lungo su quanto la comunità sia molto spesso spettatrice passiva della messa.
Un aspetto da coltivare sarebbe la partecipazione attiva alla messa, che non è tanto un “fare qualcosa nella messa” in modo che tutti si sentano coinvolti, quanto aiutare a partecipare con la vita ai vari momenti della messa.
Un atto penitenziale e delle preghiere dei fedeli che riguardino la concretezza della vita di quella comunità; una frazione della parola di Dio condivisa in modo che sia calzante per quella comunità e non valida per ogni tempo e luogo; insegnare a portare all’altare la gioia e la fatica di ogni giorno, per disporci a offrire il sacrificio gradito a Dio; rivivere con Gesù la Pasqua che si attua nel sacramento; uno scambio di pace che non sia formale; il vivere una comunione affettiva con Lui per poi portarla nella vita di ogni giorno.
Il secondo aspetto è la carità. Questa è la cartina tornasole di come la carità che celebriamo nell’Eucarestia, difficilmente riesce ad avere una ricaduta nella società a diversi livelli. Questo tempo di convivenza forzata in famiglia ha mostrato come i rapporti in casa, in alcuni casi siano formali, e non affettivi, sia nei confronti del coniuge che dei figli. In questo periodo di vita stretta in casa sono anche aumentati i casi di violenza domestica, avvenuti senza segnalazione alle autorità competenti. Questo tempo di emergenza economica ha fatto affiorare quanti leoni da tastiera siano stati capaci di pubblicare post riguardanti l’aiuto al prossimo senza minimamente impegnarsi nelle opere di aiuto sociale proposte da parrocchia e Comune.
Questo fallimento è riconducibile ad una pastorale sacramentale che non ha tenuto conto del deficit del primo annuncio, del primo amore verso
Gesù. La pastorale della ripartenza dovrebbe ripuntare sul primo annuncio kerigmatico, sull’importanza delle relazioni nella comunità, sul fare esperienza di un Dio che viene per salvare e non giudicare le persone, di un Dio che è Padre. Tutto questo è possibile se prima di tutto siamo noi a lasciarci convertire il cuore e come Pietro sappiamo camminare dietro Gesù. E non come Giacomo e Giovanni che proponevano un fuoco per la città che non li voleva accogliere: convertirci noi per aiutare gli altri a riscoprire un Gesù simpatico, un Gesù fratello dell’umanità, un Gesù amico di tutti gli uomini.
Tutto questo può accadere solo se si mette al centro della pastorale l’ascolto della Parola di Dio e la condivisione delle grandi opere che Dio compie in noi ogni giorno nella nostra vita.
don Gino Gessaroli
Parroco di Borghi
Cristiano, gusta la tua dignità
A conti fatti, sono passati quasi tre mesi dall’ultima messa celebrata coi fedeli il 23 febbraio scorso. Dopo qualche giorno di prova con le messe feriali, torneremo a celebrare col popolo cristiano domenica 24 maggio, giorno dell’Ascensione.
Tre mesi di digiuno eucaristico per tutti i fedeli … noi preti, essendo in quattro nella comunità di Morciano, ci siamo sostenuti a vicenda nella celebrazione quotidiana e in quella domenicale (in streaming).
Non è stata soltanto l’assenza del popolo alla messa a caratterizzare questo tempo per la Chiesa, ma la sospensione totale di tutte le attività parrocchiali: gli incontri formativi, le celebrazioni particolari di Battesimi, prime Comunioni, Cresime, Matrimoni … le molteplici attività coi giovani e coi ragazzi … nella prospettiva di non poter realizzare neppure i tanto attesi campeggi estivi. Ora è lecito chiedersi: cosa riusciremo a raccogliere da tutte queste macerie? Cosa rimarrà o cosa dovremo cambiare della nostra vita comunitaria intorno alla parrocchia?
Certamente non cambierà la vita sacramentale: la Chiesa continuerà a garantire ai fedeli la celebrazione eucaristica e tutti gli altri sacramenti, la proclamazione e l’ascolto della Parola di Dio, la carità costruttiva di comunità e di fratellanza … la Chiesa non muterà il suo compito di nutrire e santificare il popolo cristiano.
Ma certamente dovrà cambiare il cuore del credente: chi vuol essere cristiano non può più accontentarsi della messa domenicale… Tre mesi di ”digiuno eucaristico” devono averci insegnato che la vita, cristianamente vissuta, si svolge prevalentemente altrove, fuori della chiesa, e prenderne coscienza equivale a crescere nella fede e nella piena maturazione di essa.
Ecco, ciò che cambia deve essere la consapevolezza e responsabilità
della nostra dignità di cristiani, del nostro essere “sacerdoti” come ci insegna la scrittura (cfr I Pt 2) ed il Concilio Vaticano II.
Ma basteranno tre mesi di disagio e digiuno per liberarci di tanta zavorra (ritualità, tradizioni umane, esteriorità …) accumulata nei secoli trascorsi?
Lasciamo che il tempo faccia la sua parte.
Per il momento la libertà d’azione per esprimere esteriormente la nostra religiosità è assai ridotta: potremo celebrare la messa coi fedeli, ma con numero ridotto e con una sfilza interminabile di limitazioni.
Per ridare, poco a poco, vitalità alle nostre comunità, da Morciano a Montefiore, da Gemmano a San Clemente, stiamo improntando un programma di celebrazioni distribuite nella giornata domenicale e dislocate nelle varie chiese o dintorni. Anche nei dintorni, cioè in spazi esterni adatti e raccolti, per permettere la partecipazione ad un maggior numero di fedeli, visto che dentro le chiese, nel rispetto delle norme di distanziamento sociale, non ci sarebbe posto per tutti.
Ma questi sono cambiamenti a cui ci si adatta facilmente e rapidamente.
Da noi, nella Unità Pastorale di Morciano, c’è anche qualche altro cambiamento che richiederà a tutti qualche sacrificio e qualche sforzo in più. Da quattro preti, come attualmente siamo, entro dicembre a Morciano ne rimarranno, verosimilmente, solo due: don Jean Paul tornerà in Senegal e un’altro dovrà sostituire don Ferruccio al santuario di Bonora.
Le novità arrivano sempre in coppia.
don Egidio Brigliadori
Vicario foraneo di Valconca
(1- continua)