Tre capitoli (Dino, Carla e Serena) più un epilogo (“Il capitale umano”). Tre angolazioni diverse per Il capitale umano, il nuovo film di Paolo Virzì che mette da parte la commedia, va in trasferta “su”, in luoghi inesplorati nel suo cinema, e fa ingoiare bocconi amari in questo ritratto di crisi che avanza e travolge, ma con chi risorge scommettendo proprio sul disastro del paese. Alla base il romanzo di Stephen Amidon, originariamente ambientato nel Connecticut e “trasportato” dagli sceneggiatori Virzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo nell’Italia del Nord (si è polemizzato riguardo al ritratto di una Brianza cinica ed amorale offerta nel film, ma il contesto ambientale in realtà è quello di una provincia più generalizzata, baciata dal benessere e non pronta al tracollo): storie che coinvolgono due famiglie, un incidente, soldi che corrono, sogni da afferrare ma difficili da realizzare, storie d’amore e qualche spruzzata di passione per il teatro, in un processo narrativo complesso e intrigante, con la storia che riparte sempre dal punto di arrivo e ricostruisce a poco a poco un drammatico e sarcastico puzzle che ci mostra alla fine tutto l’insieme.
Cast ben impegnato, omogeneo e capace di attraversare il film con quel piglio grottesco richiesto dal regista toscano. In questa operazione si ride solo nella breve scena della riunione per una stagione teatrale, per il resto scatta spesso la giusta indignazione verso un sistema economico che non pensa al bene comune e dove una povera vittima diventa “capitale umano” (termine usato dagli assicuratori), economicamente valutata in modo assai misero rispetto al suo effettivo “valore”. Come se la persona fosse un oggetto da prezzare e non un individuo da rispettare.
Il Cinecittà di Paolo Pagliarani