Dieci anni fa, quando andavo in giro a presentare il Lungo autunno mi sentivo fare spesso questa domanda: “ma insomma, il Sessantotto è tutto sbagliato, tutto da buttare?”. Perché io calcavo il controcanto a Mario Capanna. C’era anche della gente un po’ più vecchia di me, che aveva vissuto quegli anni e che fors’anche perché ricordava i suoi 20 anni, era un po’ più indulgente. Alla fine, da qualche parte, sbottai: “guardi che io non sono contro gli ideali buoni che c’erano nel Sessantotto. Anzi le dico di più: quando sarà il momento io difenderò quegli ideali buoni”. E il momento è arrivato”. Roberto Beretta, giornalista di “Avvenire”, autore di bestseller sui cattolici italiani e la loro storia recente, spiega così l’origine di questo suo nuovo libro Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici, appena uscito per l’editore Piemme. Dieci anni dopo Il lungo autunno (Rizzoli), torna ad indagare gli anni della contestazione cattolica. “Ho diviso questo nuovo libro in due parti – ci spiega –: una parte destruens, quella di forte critica ai miti del Sessantotto: ‘laico, democratico, formidabile, spontaneo, non violento, figlio del Concilio, inevitabile’. Uso degli episodi per dire: ‘attenzione, non è stato esattamente come ce l’hanno cantato fino ad adesso’. E questo è in sostanza anche il lavoro che avevo fatto nel Lungo autunno di dieci anni fa. La seconda parte vorrebbe essere un po’ l’aggiunta: la pars costruens. Cioè: ma dobbiamo proprio buttar via tutto di questo Sessantotto, o in realtà c’è qualcosa che, forse fatta male, con metodi sbagliati o mal gestita rimane comunque recuperabile?”.
Quindi c’è un cambiamento di prospettiva…
“Io rimango sempre molto duro nel giudizio. I fatti rimangono quelli, a parte qualche aggiornamento. Però ho cambiato l’angolatura da cui guardo i fatti. Dieci anni fa tutti esaltavano il Sessantotto come un anno formidabile, un’esperienza irripetibile, una cosa che non aveva difetti, perfezione della democrazia, della partecipazione, dell’uguaglianza, dei diritti… Mi sembrava che la cosa principale fosse guardare l’altra faccia della medaglia e dire: “un momento non è proprio stato tutto così, non fu proprio un anno formidabile”.
Oggi invece…
“Mi sembra che il contesto culturale sia cambiato, che la tendenza sia quella di condannare il Sessantotto addossandogli tutte le colpe. La scuola va male? Colpa del Sessantotto. La famiglia va in crisi? Colpa del Sessantotto. La società non ha più valori? Colpa del Sessantotto. La politica è morta? Colpa del Sessantotto. La Chiesa è nella situazione in cui siamo? Colpa del Sessantotto. Questa visione mi sembra sbagliata e pericolosa. Perché è una visione molto funzionale al potente di turno. Anche nella Chiesa. È come se si dicesse: avete visto quegli illusi, quegli utopisti, che volevano cambiare il mondo? Guardate cosa hanno combinato. Meglio non cambiare, meglio stare allo status quo, non provarci neanche perché quello che potrebbe venire è soltanto un disastro. Questo porta poi ai rigurgiti di clericalismo che vedo nella Chiesa, oppure alla stanchezza, al riflusso nel privato, all’idea che il mondo non cambia, quindi tanto vale che noi ci occupiamo delle nostre piccole faccende… Anzi tentare di cambiarlo peggiora la situazione”.
Qualcosa di buono dunque c’era anche in quella contestazione…
“Proprio da cattolici, sappiamo bene, leggendo con una teologia della storia gli avvenimenti, che non esiste il male totale e non esiste il bene totale. Nella vita le cose si mescolano e bisogna applicare il discernimento, che noi cattolici predichiamo molto spesso ma che dovremmo anche sapere applicare. Dobbiamo esercitare un giudizio storico ma anche teologico su quell’epoca per discernere ciò che c’è stato di sbagliato – ed è stato tanto – ma anche quello che c’è stato di buono. E questo soprattutto per i giovani”.
Come li vede i giovani, oggi?
“Vedo le nuove generazioni che sembrano rassegnate, ripiegate su se stesse. Forse anche questo è un estremo frutto sbagliato del Sessantotto. Perché quell’incendio fu talmente veemente, talmento totalitario, talmente vasto, che ha bruciato tutti i germogli di speranza anche per le generazioni successive. Non soltanto parecchi dei protagonisti del Sessantotto adesso si sono accomodati su lidi molto meno rivoluzionari e più comodi, vedi quelli che sono diventati i potenti di turno nei giornali, nella politica, nell’economia ecc. Ma hanno anche fatto terra bruciata per i giovani che vengono dopo”.
Dieci anni fa definiva il Sessantotto come “figlio illegittimo del Vaticano II”. Questa volta scrive invece che è “prematuro e di padre incerto ma molto cattolico…”. C’è davvero questo legame con il Concilio?
“In Italia sì. Anzi, devo dire che rispetto al libro precedente si è un po’ approfondita la mia convinzione. Oggi sostengo che è un figlio legittimo che poi in molti casi se ne va per la sua strada…”.
Cerchiamo di capire meglio. Dove stanno i legami?
“Ci sono diverse tesi sui rapporti tra Concilio e Sessantotto cattolico. Quella più di destra sostiene che il Concilio ha fatto nascere direttamente il Sessantotto, rimuovendo certe solidità dogmatiche o liturgiche tradizionali della Chiesa. In pratica avrebbe scoperto una pentola dentro la quale stavano un sacco di venti nocivi che hanno creato la contestazione. La tesi più di sinistra, sostiene invece che il Sessantotto non è figlio del Concilio quanto piuttosto di una sua mancata applicazione”.
E la sua qual è?
“La mia tesi si colloca nel mezzo. Non si può negare che ci sia stata una raccolta di linfe nel mondo cattolico, soprattutto quello intellettualmente e culturalmente più preparato che il Concilio aveva facilitato. C’era un’attesa, uno studio di testi, una circolazione di libri, di idee e di maestri, che il Concilio aveva messo in giro nel corpo della Chiesa italiana e che all’inizio soprattutto sembravano poter trovare l’applicazione migliore attraverso i moti del Sessantotto cattolico. Quindi è vero, che all’inizio è nato “conciliare”. Ma poi ha preso una sua strada. Più avanti ha scelto una strada che non era più sempre conciliare, a volte non era più neanche ecclesiale, e neppure più cristiana e religiosa”.
Quanto hanno inciso personaggi che a Firenze hanno avuto un grande ruolo, come La Pira, Don Milani, padre Turoldo, padre Balducci?
“La grande stagione della Chiesa fiorentina c’entra poco con la contestazione, anche cattolica. A volte ci viene tirata per i capelli per delle analogie che sono fuorvianti. È fuor di dubbio, ad esempio, che La Pira ha sempre mantenuto le sue iniziative – a volte anche dirompenti e persino rivoluzionarie – nella più stretta ortodossia e obbedienza alla gerarchia. Si può dire che La Pira che ha fatto l’Isolotto, non lo ha più seguito dieci anni dopo quando è diventato la bandiera del dissenso cattolico”.
I contestatori citavano però gli scritti di don Milani…
“È vero che la sua Lettera ad una professoressa è diventata una sorta di libretto rosso dei cattolici italiani, che veniva agitato nelle manifestazioni e nelle assemblee, come il manifesto del nuovo modello di educazione che il Sessantotto avrebbe dovuto portare: un’educazione non più nozionistica, paternalistica, autoritaria, ecc. Però è pur vero che questa è una lettura molto parziale del testo. È quasi una strumentalizzazione”.
Una lettura parziale che lo stesso don Milani non avrebbe autorizzato…
“Sì è vero. Sappiamo benissimo che l’influenza del Concilio Vaticano II su don Milani è stata per sua stessa ammissione quasi nulla. Sappiamo anche che una delle cose che don Milani aborriva era proprio la rivoluzione dei figli di papà, che Pasolini avrebbe poi stigmatizzato. E il Sessantotto è stato in larga parte una rivoluzione dei figli di papà”.
I “Pierini” di “Lettera ad una professoressa”…
“Esatto. Se don Milani avesse dovuto fare scuola ai sessantottini questi l’avrebbero subito contestato come il più duro dei loro professori. Don Milani non era certo un maestro dal sei politico”.
Dopo la stagione delle contestazioni arrivò quella del terrorismo. Anche qui ci sono legami con il mondo cattolico?
“La questione è più complessa e anche per me è difficile da dirimere. Ci sono due dati contrastanti: uno è che effettivamente nelle Br o in altre formazioni terroriste troviamo molti cattolici, da Mara Cagol in poi. La moglie di Renato Curcio era una fervente cattolica, una scout, membro dei gruppi liturgici della sua parrocchia, che si era sposata in chiesa… Però d’altra parte quasi tutti i protagonisti di quella stagione negano che quelle siano state le origini. C’è una frattura, non so se dovuta ad una reticenza dei testimoni, perché nessuno vuol dire che è diventato violento seguendo il messaggio evangelico, o se è un dato di fatto reale. Questa è una pista che dobbiamo ancora esplorare”.
Claudio Turrini