Il termine canone deriva dal greco kanon che significa «canna» e può indicare anche il «regolo» che stabilisce l’unità di riferimento per le misurazioni spaziali. Con un significato più astratto esso indica il modello di riferimento per ogni insieme di cose, tra loro accomunabili. In riferimento alla Bibbia esso indica l’elenco di riferimento dei libri ispirati da Dio, e dunque «canonici».
In 2Tm 3,16 si afferma che tutta la Scrittura è ispirata da Dio. Abbiamo già approfondito cosa significa l’espressione «ispirata da Dio». Ora dobbiamo intenderci sulle parole: «tutta la Scrittura». Anzitutto bisogna riconoscere che l’espressione greca non è del tutto univoca: essa infatti si può comprendere sia, in senso globale, come «tutta la Scrittura» sia, in senso distributivo, come «ogni Scrittura», ossia ogni libro, sezione, passo, versetto della Scrittura. I due significati non sono contrapposti, ma complementari.
Infatti ogni versetto, passo, sezione o libro è «Scrittura» solo se considerato nel contesto dei versetti che compongono un passo, dei passi che compongono una sezione, delle sezioni che compongono un libro, dei libri che compongono il canone dell’Antico o del Nuovo Testamento e infine dell’unità tra Antico e Nuovo Testamento nel canone cristiano. Viceversa la totalità della Scrittura non può cancellare al suo interno le tante e molteplici diversità di libri, autori, lingue, periodi storici, contesti sociali e generi letterari. Solo il duplice movimento che porta da un lato a valorizzare le differenze e dall’altro a inserirle nel contesto canonico può rendere ragione della Bibbia.
A quali libri fa riferimento il passo della seconda lettera a Timoteo? È chiaro che l’espressione «tutta la Scrittura» si riferisce all’AT, dal momento che al v. 15 si parla degli ierà grammata, ossia delle Scritture Sacre e dell’educazione infantile ad esse, praticata in Israele – Timoteo era ebreo di madre – e più tardi raccomandata dalla tradizione rabbinica fin dall’età di cinque anni. A quali libri esattamente qui si faccia riferimento non è chiaro e può essere ipotizzato solo a partire da un’indagine più approfondita sul giudaismo del I secolo. Sicuramente vengono considerati sacri i cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio), i libri profetici (Nevi’im) e forse anche i Salmi e qualche libro sapienziale (cf. Lc 24,44). Ciò che tuttavia importa è che c’è, almeno implicitamente, una comprensione unitaria di quest’insieme di libri, che non proviene da un’assunzione arbitraria della comunità dei discepoli di Paolo, ma dalla tradizione ebraica.
Dunque anche gli ebrei hanno un canone delle Scritture? Pur non godendo di un’autorità centralizzata in grado di promulgare l’elenco dei libri sacri come dogma, l’ebraismo, nelle sue varie forme, comunità e appartenenze, ha riconosciuto e formalizzato un elenco di libri sacri, grazie anche all’opera di trasmissione testuale e interpretazione dei rabbi. Soprattutto dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., le correnti religiose più influenti dell’epoca, in particolare il fariseismo, ha contribuito a trasmettere ed approfondire la tradizione scribale precedente, definendo in modo più esplicito un elenco di libri sacri, secondo una suddivisione in tre grandi classi di scritti: Torah (Legge), Nebi’im (Profeti), Ketubim (Scritti), da cui l’acronimo Tanakh che si riferisce alle tre sezioni della Bibbia. Proprio suddividendoli in tre classi (i cinque libri di Mosè, i Profeti e altri quattro libri contenenti inni e precetti morali) nel 95 d.C. lo storico ebreo Flavio Giuseppe parla di ventidue libri santi. Oggi, se apriamo una Bibbia ebraica, il conteggio dei singoli libri arriva a ventiquattro: per la Torah cinque, per i Nebi’im (Anteriori e Posteriori) otto, e per i Ketubim undici. Tuttavia il numero di ventidue può tornare accorpando i libri delle Cronache ed Esdra-Nehemia, in analogia al numero di lettere dell’alfabeto ebraico.
Ma i libri dell’Antico Testamento non sono molti di più per noi cristiani?
Nel canone cattolico la somma arriva a 46. Per la maggior parte la differenza nella cifra dipende dal diverso modo di conteggiare i libri. Ad esempio se nella Bibbia ebraica i Dodici profeti sono un unico libro, invece in quella cristiana sono conteggiati come dodici; inoltre nella Bibbia ebraica I-II Samuele sono considerati come un unico libro. Lo stesso vale per I-II Re, per I-II Cronache, Esdra/Nehemia e Geremia/Lam. Poi vi sono alcuni libri dell’Antico Testamento che sono presenti nel canone cattolico, ma non nel canone ebraico e per questo si chiamano deuterocanonici. La loro presenza dipende da un’antichissima traduzione della Bibbia ebraica in greco, realizzata ad Alessandria d’Egitto sotto il governo dei Tolomei (III sec. a.C.), che si chiama Settanta (LXX cf. box).
La Chiesa cattolica è sempre stata concorde nell’individuazione del canone? La tradizione cristiana ha per lungo tempo oscillato tra un canone ristretto, simile a quello ebraico (lista di Atanasio) e il canone allargato influenzato dalla LXX (lista di Agostino), con una preferenza generale per quest’ultimo. Quando poi le comunità protestanti hanno optato per il canone ristretto la Chiesa cattolica riunita a Trento nel XVI sec. ha dogmatizzato il canone allargato. Inoltre ci sono libri presenti nella tradizione greca della LXX, come 3-4 Maccabei, l’Orazione di Manasse, 4 Esdra, i Salmi di Salomone e le Odi di Salomone, che compaiono talvolta in alcuni elenchi antichi di libri sacri ma sono stati esclusi dal concilio di Trento. Analogamente per il Nuovo Testamento possiamo citare i casi del Pastore di Erma o della Lettera ai Corinzi di Clemente romano o ancora della Lettera di Barnaba. Nonostante queste oscillazioni dobbiamo constatare che ciò che accomuna la lista allargata e quella ristretta è di gran lunga maggioritario. Desta stupore che comunità così distanti nello spazio e nel tempo e immerse in culture così diverse l’una dall’altra, come le comunità ecclesiali dei primi secoli e quelle ebraiche palestinesi ed ellenistiche, abbiano conservato una tale convergenza nelle loro tradizioni testuali. Ciò testimonia che l’unità della Scrittura è resa possibile dal convergere di una molteplicità di tradizioni, ebraiche e cristiane, e non può essere solo il frutto di un’imposizione ideologica di alcune elites politico-religiose. .
E per quanto riguarda il canone del Nuovo Testamento? Esso conta 27 libri, secondo tutte le confessioni cristiane. Essi sono caratterizzati da una notevole diversità dei loro generi letterari, che vanno dalle narrazioni biografiche dei Vangeli all’epistolografia paolina, ai trattati omiletici come la lettera agli Ebrei, ecc. Pur attraverso tali diversità letterarie essi, considerati globalmente, attestano in modo concorde la tradizione apostolica, che interpreta e ri-scrive tutto l’AT alla luce di Gesù, messia di Israele, morto e risorto secondo le Scritture. Nasce così la Bibbia cristiana, che comporta l’unità dei due Testamenti. Possiamo concludere che il riconoscimento della canonicità, dogmatizzato a Trento, è un’operazione che parte dall’esperienza di fede della Chiesa, radicata nella tradizione del popolo ebraico e fondata sulla predicazione e sull’insegnamento degli Apostoli. Se non è possibile elaborare a priori un principio che permetta di distinguere in tutti i casi ciò che è canonico da ciò che non lo è, siamo tuttavia in grado di riconoscere quanto la storia e l’identità della Chiesa siano profondamente connesse con l’unità di un libro, la Scrittura, in cui la Chiesa stessa si riconosce e cresce, rileggendolo alla luce del suo cammino.
(3 – continua)
Davide Arcangeli