Un allestimento d’antan per la farsa in un atto Il signor Bruschino secondo titolo della programmazione pesarese
PESARO, 7 agosto 2021 – Una cornice genericamente retrò, con alcune strizzatine d’occhio al cinema italiano. È ambientato su una barca Il signor Bruschino di due esordienti a Pesaro, la coppia Barbe & Doucet: scenografo e costumista il primo, regista il secondo. Una scelta un po’ improbabile, che offre il pretesto per qualche gag di troppo: dall’atteggiamento sopra le righe della protagonista femminile agli abiti di Bruschino, conciato come certi personaggi della commedia neorealista, mentre Gaudenzio sembra ricalcato su Nino Manfredi (indizio inequivocabile: il caffè che sorseggia) protagonista di alcuni film degli anni settanta. Un omaggio a una stagione irripetibile del nostro cinema, tanto ammirata soprattutto all’estero? Forse, ma il rischio è quello di scivolare in un accademismo citazionista neanche troppo comico, che non rende giustizia a questo piccolo gioiello, male accolto – per certe sue ardite sperimentazioni – al debutto nel 1813.
Il signor Bruschino segnava il quinto incontro del giovanissimo Rossini con la ‘farsa’ (ossia un’operina in un atto) ed era sua intenzione affrancarsene dagli stereotipi e rinnovarne il genere. Per questo il compositore ricorre a ironiche soluzioni strumentali, come i colpi degli archetti sui leggii durante la sinfonia, e soprattutto calibra perfettamente arie e brani d’insieme, trasformando la vicenda ideata dal librettista Foppa, un po’ esile del suo, in un’irresistibile macchina comica: basterebbe pensare alla marcia funebre che accompagna l’ingresso di Bruschino figlio quando canta «sono pentito, -tito -tito». Nonostante ciò, neppure la musica era riuscita a compiere il miracolo e lo sforzo dell’autore non venne apprezzato dai contemporanei. Per fortuna, nell’esecuzione pesarese, proprio l’ironia della musica trova modo di emergere grazie alla bacchetta del giovane Michele Spotti, che ha diretto con brio e sicurezza la Filarmonica Gioachino Rossini valorizzando la vivacità della partitura attraverso un’efficace gestione delle dinamiche. L’unico problema riguardava la disposizione dell’orchestra, che – per mantenere il distanziamento fra gli strumentisti – non era collocata in buca come di consueto, ma nella platea del Teatro Rossini: una necessità che ha creato qualche squilibrio sonoro e alcuni problemi con il palcoscenico, costringendo talvolta i cantanti a forzare.
Al centro di un intreccio che termina con un’agnizione c’è una coppia di baritoni comici – una costante dell’opera buffa – in grado d’innescare una spiritosa dialettica vocale. Nei panni di Bruschino, ossia il ‘buffo parlante’, l’ottimo Pietro Spagnoli ha disegnato un personaggio sornione e ironico in virtù di una dizione perfettamente scandita e del sapiente uso dei portamenti, imprimendo al tormentone «Uh! che caldo!» un’incredibile varietà di accenti. Nel ruolo di ‘buffo cantante’, Giorgio Cauduro si è discostato dalla tradizione del Gaudenzio stilizzato, quasi surreale, privilegiando invece un netto realismo comico, grazie a una recitazione calibrata sul modello del Manfredi cinematografico e, con esso, sulla grande tradizione della commedia all’italiana: ha così tratteggiato – con colorature aggredite ‘di forza’, mai però a scapito della precisione – una figura di gradasso destinato a soccombere. La coppia di amorosi, Sofia e Florville, che evocava invece certi film sbarazzini dei nostri anni cinquanta, era formata dal soprano spagnolo Marina Monzó, spigliata e sicura nella sua difficile aria, e dal tenore Jack Swanson, in possesso di apprezzabili mezzi vocali. Tra i comprimari altri due tenori di pregio: Manuel Amati, il vero figlio di Bruschino, ed Enrico Iviglia, il commissario chiamato a risolvere l’inghippo. Oltre a loro vanno ricordati il mezzosoprano Chiara Tirotta, la cameriera Marianna, e il basso Gianluca Margheri, il locandiere Filiberto, altrettanto apprezzabili.
La migliore dimostrazione, insomma, di come Il signor Bruschino sia una macchina musicale comica che funziona benissimo. Anche se all’epoca di Rossini i suoi contemporanei non se ne erano accorti.
Giulia Vannoni