A quasi vent’anni dalla fine del conflitto, in Bosnia Erzegovina non è ancora arrivata una pace “giusta”. Il Paese soffre divisione ed emarginazione, mentre la sua popolazione continua ad andare all’estero, soprattutto i giovani. Non usa mezzi termini monsignor Pero Sudar, vescovo ausiliare di Sarajevo, nel descrivere la situazione. La guerra è terminata con “una pace invivibile, perché imposta per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con quelli degli abitanti della Bosnia Erzegovina”. L’accordo di Dayton, firmato alla fine del 1995 dopo oltre tre anni di conflitto, ha dato vita a uno Stato “artificiale”, nel quale alle “vecchie ingiustizie e diffidenze se ne sono aggiunte di nuove”, con la conseguenza che, “vent’anni dopo la guerra, la Bosnia Erzegovina risulta essere una società moribonda, dalla quale chi può fugge”. E l’Europa? Per ora resta solo a guardare.
Non ha davvero parole dolci, il vescovo Sudar. A Rimini lo conoscono in tanti: qui hanno finanziato al loro sorgere le scuole di pace erette al di là dell’Adriatico. L’ho incontrato a Gorizia al convegno nazionale della Federazione dei settimanali cattolici. Cancellato dalla disattenzione dei media, il dramma della Bosnia è però ancora vivo nel cuore di molti riminesi.
Monsignor Sudar, Bosnia ed Erzegovina, un Paese senza pace…
“La realtà della Bosnia ed Erzegovina (d’ora in poi Bosnia, ndr) è in se stessa complessa. Secondo il censimento fatto nel 1991, cioè prima dell’ultima guerra, vivevano 4.377.033 abitanti. I risultati del censimento dell’ottobre scorso parlano di 3.791.662 abitanti. Quindi un Paese piccolo, ma grande e complesso per i suoi, a volte sembra, irrisolvibili, problemi. Lo Stato in cui si trova la Bosnia oggi è assai artificiale dal punto di vista politico e, di conseguenza, da tutti gli altri punti di vista. Al bagaglio pesante delle vecchie ingiustizie e diffidenze si sono aggiunte le nuove. Una guerra orribile, causata dall’imperialismo di stampo comunista e realizzata con l’ardore dei risentimenti storici della povera gente, è terminata con una pace invivibile perché ispirata e imposta, anche questa volta, per soddisfare interessi che non hanno niente a che vedere con il bene degli abitanti della Bosnia. Il risultato è che vent’anni dopo la guerra, la Bosnia, per molti, risulta una società moribonda e un Paese senza prospettiva, da cui chi può fugge”.
Quali le origini storico – etniche di questo disastro?
“Fino alla seconda metà del XIX secolo i popoli che abitavano la regione balcanica hanno avuto, più o meno, la stessa sorte. Tutti erano etnicamente e religiosamente mescolati e assoggettati all’impero ottomano. L’identità etnica era proibita e quella religiosa molto sospetta e oppressa. Mentre gli altri popoli balcanici hanno creato propri stati nazionali, solo la Bosnia è rimasta così come si era creata sotto gli ottomani perché, nel frattempo, è entrata a far parte dell’impero austro-ungarico che, per i propri interessi,cercava di promuovere una società amalgamata. Per comprendere meglio in che cosa consista quindi la differenza tra la Bosnia e gli altri paesi balcanici potrebbe servire, come illustrazione, un piccolo particolare: ai tempi degli ottomani, a Belgrado c’erano più moschee che a Sarajevo. Oggi si calcola che a Sarajevo ce ne siano più di cento. A Belgrado, invece, solo una. Le vecchie tensioni, le rivalità e le questioni fondamentali irrisolte che hanno caratterizzato i paesi e popoli balcanici, in quanto società interetnica e interreligiosa, si sono concentrate continuando ad esistere in Bosnia. In essa oggi convivono ortodossi, cattolici, musulmani ed ebrei, oltre a diciassette minoranze nazionali legalmente riconosciute. Si tratta dei rappresentanti dei mondi divisi. Avvelenata dalle ingiustizie inflitte agli altri e patite dagli altri e piegata sotto il gioco degli interessi dei potenti, la gente del mio Paese non ha ancora né il coraggio di levare lo sguardo né la capacità di intuire il proprio migliore futuro. Tutti i paesi dell’Europa sud-orientale sono già membri dell’Unione Europea o hanno iniziato il processo d’integrazione. Così non è per la Bosnia”.
Una divisione che ha prodotto morte e distruzione.
“In tutta la sua brutalità, l’ultima guerra in Bosnia ha mostrato tutta la debolezza morale, la divisione e il disorientamento politico dell’Europa, unito al machiavellismo del governo statunitense. Il bilancio tragico conta centomila morti, due milioni seicento ottantamila persone cacciate dai luoghi in cui vivevano, vale a dire il 63,8% di tutta la popolazione“.
Può esserci una prospettiva per il suo Paese? Quale?
“Certo, che ci sarebbe una soluzione! Però, essendo la Bosnia un Paese particolare, differente dagli altri, avrebbe anche bisogno di un trattamento particolare. Questo trattamento postula, prima di tutto, un radicale cambiamento della mentalità della nostra gente. La mentalità non si cambia dall’oggi al domani. I vecchi nemici non diventano spontaneamente o per caso amici. Ci vuole un impegno serio e duraturo. Questo significa una vera conversione umana, vale a dire un cambiamento del modo di pensare e, soprattutto, di sentire. Per questo ci vorrebbe un impegno sincero comune e sincronizzato della cultura e della religione.
Vent’anni fa, quando venni anche a Rimini, il mio Paese era ancora in guerra. Vi presentai le ragioni della guerra. Tra le altre, mi fu rivolta la domanda: cosa si può fare per sradicare questa radice della guerra fratricida, che si ripete periodicamente? Risposi allora e lo ripeto anche oggi: bisogna educare le nuove generazioni a vivere con un altro spirito. Per noi cristiani significa lo spirito del Vangelo, che nell’incontro con gli appartenenti alle altre religioni o convinzioni, significa cultura del rispetto e della collaborazione per il bene comune. Questa cultura non è possibile senza il reciproco riconoscimento. Temo che proprio questo manchi alle Chiese e alle religioni! Se ormai per tutto il mondo vale la costatazione che senza la pace tra le religioni non vi può essere la pace tra i popoli, questo vale ancora di più per la Bosnia. Vent’anni fa vi presentai l’esperienza delle scuole cattoliche interetniche e interreligiose come un piccolo tentativo della Chiesa di porre un segno di speranza e dare un contributo alla convivenza in pace tra diversi. Quest’anno a novembre queste scuole ricorderanno i vent’anni dall’inizio della loro esistenza. Nel frattempo il numero delle scuole e degli alunni è cresciuto. Le scuole sono quindici e gli alunni circa cinquemila. Esse sono solo una piccola prova che il dialogo vivo e la convivenza concreta tra i diversi è, non soltanto possibile, ma bello!”
Però…
“Però il processo che tende a cambiare la mentalità verso una convivenza vissuta come un’opportunità e non come una condanna e minaccia permanente, risulta impossibile se viene a mancare la giustizia, come strumento con cui lavorare e obiettivo verso cui tendere. Il peso che ci schiaccia e rende il futuro del nostro Paese così difficile sono le profonde ferite della guerra che, a causa delle conseguenze di una pace ingiusta, non trovano il modo di guarire. L’accordo di pace imposto dagli Stati Uniti a Dayton e protetto già da vent’anni dal gruppo di contatto, rende il nostro Paese ingovernabile”.
Un’affermazione forte.
“Che questo sia vero, ne è prova la situazione socio-politica che oggi è anche peggiore dell’immediato dopoguerra. Ecco ancora un piccolo e tragico esempio che attesta l’inutilità di tutti i tentativi a livello culturale e religioso, quando manca quello socio-politico. Quattro anni fa la nostra scuola a Zenica ha ricordato il suo 15° anniversario. I dirigenti scolastici hanno avuto l’idea di invitare i migliori alunni di ogni anno scolastico, dal 1995. Dei quindici studenti rintracciati solo uno è rimasto a vivere e studiare in Bosnia! E anche lui, dopo essersi laureato in lettere, lavora in un’organizzazione internazionale. Se i nostri migliori giovani continuano ad andarsene via, la Bosnia non potrà essere un Paese di convivenza e d’incontro, ma la prova che una società mista e meticcia, in cui ognuno rimane ciò chi è, insieme agli altri, nell’Europa di oggi non è realizzabile”.
C’è un’alternativa?
“Il processo di disintegrazione, come quello attuale in Ucraina, si estenderà sempre di più. E questo raramente avviene senza versare il sangue. Questa realtà postula da parte di tutti un approccio responsabile, morale e delicato. I mass media, anche quelli più piccoli, hanno la loro grande missione, e cioè mettersi dalla parte della giustizia, perché solo da quella parte può giungere il contributo umano alla causa della pace, che è il grande dono di Dio”.
a cura di Giovanni Tonelli