Non c’è dubbio che una parte consistente di opinione pubblica desideri che la guerra finisca. Alcuni lo fanno solo per non pagare alcun conto, alla fine, costi quello che costi agli ucraini. Un rapido sguardo di compatimento (“poveretti”) alle fosse comuni e alle donne stuprate, ai bambini morti e pace, nel senso di amen. Ma, certamente, l’idea che tanti commentatori dei media danno, che pacifismo e comodi propri siano coincidenti, è decisamente qualunquista e comoda per giustificare altre scelte.
Com’è ingeneroso leggere le voci pacifiste come la rappresentazione ideologica che di esse si dava a metà del secolo scorso, addirittura prima della guerra del Vietnam. Perché in questa situazione, con un territorio occupato e un popolo aggredito in modo così violento, non pochi non-violenti avrebbero forse votato a favore dell’invio di armi all’Ucraina, ma – perlomeno – non ci avrebbero dormito la notte.
Perché le armi sono armi e il concetto di escalation bellica è percepibile, oltre che nei centri di studi strategici, anche per strada o al bar. Fino al rischio, speriamo solo enunciato, dell’uso di armi atomiche o “sporche”. Esiste infatti un pacifismo che ha forti radici etiche e una tradizione “interventista”, coraggiosa e disarmata, fatta di volontariato, presenza attiva, sacrificio. Proprio a Rimini nasce nel 1992 Operazione Colomba, che ancora oggi molti riminesi neppure conoscono, ma che da 30 anni opera in territori di conflitto, prima nella ex Yugoslavia, poi in Palestina, Colombia, Albania, Grecia (isola di Lesbo), Libano e ora in Ucraina.
Dai primi giorni della guerra, da quel 24 febbraio scorso, giovani di Operazione Colomba sono nelle zone dove la guerra è più violenta, per dare un aiuto e significare una presenza solidale con la popolazione aggredita. Coinvolgendo tra l’altro un centinaio di associazioni e gruppi pacifisti italiani che hanno risposto, affiancandosi con l’iniziativa StopTheWarNow.
Sono per la pace e per far capire che non sono per lavarsene le mani o per stare dalla parte di qualcuno, se non della gente che soffre. Continuano a organizzare carovane di aiuti, vivono e dormono con la gente nei rifugi ad Odessa e Mykolaiv, a pochi km dal fronte, dove ogni notte i russi lanciano i loro razzi di morte. Collaborano con numerose organizzazioni della società civile ucraina, tra cui sindacati e università locali, impegnate nel supportare le vittime del conflitto, nel sostenere l’obiezione di coscienza e le azioni di resistenza nonviolenta.
Come loro era Gino Strada che, con le sue pattuglie di medici e infermieri, ha accompagnato i conflitti di una generazione e non ha certo avuto una vita semplice, diciamo così, di retrovia.
Inquadrare questa lunga tradizione culturale e politica pacifista nella furbizia italica di chi chiacchiera e basta, oppure è filorusso, è una scorciatoia polemica da evitare. Soprattutto dalle poltrone dei comodi studi delle tv italiane.