Ci sono due interessi contrapposti. Da una parte quello dei lavori pubblici e privati, perché non è concepibile una comunità urbana completamente statica, priva di manutenzione o sviluppo. Dall’altra la tutela di tutto quell’affascinante mondo nascosto dei beni archeologici, che si trovano sotto di noi e che racchiudono la nostra memoria storica (e quindi la nostra identità). Cosa succede quando questi interessi si incontrano? Più concretamente: cosa accade quando durante un lavoro di scavo si rinviene un bene archeologico? La legge nazionale disciplina questa eventualità, ma con modalità che possono lasciare spazio a prassi deleterie: spesso, infatti, può risultare più conveniente ignorare o addirittura eliminare un bene archeologico rinvenuto. Perché questo? E come rimediare?
A fare il punto della situazione nel dettaglio, illustrando qualche possibile soluzione per il futuro, è Marcello Cartoceti, fondatore e responsabile di adArte, società riminese che si occupa di servizi archeologici e restauri.
Cartoceti, partiamo dall’inizio. Com’è disciplinato, in generale, il rapporto tra i lavori di scavo e la tutela del patrimonio archeologico?
“Partendo da una prospettiva generale, la tutela del grande patrimonio artistico-culturale del nostro Paese è affidata alla normativa nazionale. Nello specifico, al Codice dei Beni culturali e del Paesaggio (d.lgs. 42 del 2004), un testo unico che raccoglie diverse leggi precedenti per avere una disciplina omogenea sul tema. Per loro stessa natura gli interessi della salvaguardia del patrimonio archeologico e della necessità di lavori pubblici e privati si incontrano, e possono nascere problematiche. La normativa nazionale tiene conto di queste possibili problematiche, e quindi prevede esplicitamente ciò che gli enti pubblici o i privati devono fare nel momento in cui un lavoro, per esempio di scavo, porta al rinvenimento di beni di valore artistico, culturale o archeologico. Il punto, ed è qui che si sviluppa la questione, è che c’è una distinzione tra gli enti pubblici e i privati”.
Di cosa si tratta?
“Già nel Codice del 2004, che abbiamo citato, si parlava del concetto di ‘archeologia preventiva’, che è estremamente importante: in sostanza, significa analizzare preventivamente un territorio, per determinare la presenza di eventuali beni archeologici e, in base a quella, valutare e organizzare i lavori. Il testo unico affermava che l’archeologia preventiva andasse applicata, obbligatoriamente, da tutti gli enti pubblici. Dopodiché nel 2006, con la legge 163, la normativa nazionale è andata a definire questo concetto, esplicitando le modalità con cui gli enti pubblici devono operare nel momento in cui predispongono un progetto di scavo, di qualsiasi tipo. In sostanza, dunque, dal 2006 un ente pubblico che debba procedere a lavori di scavo è obbligato ad aprire una pratica di verifica preventiva dell’interesse archeologico, con la quale saprà in anticipo cosa potrebbe trovare durante i lavori e, in base a tale verifica, pianificare i progetti. Si parlava, però, di una fondamentale distinzione: tutto questo, infatti, vale solo per gli enti pubblici”.
E per i privati?
“Rimane valida la normativa nazionale del Codice del 2004, per la quale in caso di rinvenimento di beni archeologici il privato deve interrompere i lavori, segnalare la presenza del bene alle autorità competenti, tutelarlo e conservarlo. Senza, però, una previsione di legge che disponga anche per i privati la procedura di archeologia preventiva, nascono, e sono nate, delle problematiche. Da una parte i privati non possono conoscere con esattezza tutti i beni archeologici che si possono trovare, con il rischio che vengano distrutti involontariamente; dall’altra, purtroppo, capita spesso che il privato, riconoscendo un bene archeologico, faccia finta di nulla o addirittura lo distrugga volontariamente”.
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