L’ambito del fine-vita continua a tenere banco nel dibattito pubblico, riproponendo interrogativi e perplessità. Di fronte a questa realtà umana, ogni cittadino (che ne abbia la capacità) dovrebbe rivendicare il diritto – ma anche il dovere – di elaborare un proprio motivato giudizio sulle varie problematiche connesse agli interventi medici e assistenziali in questa fase della vita.
Ma, certamente, l’allegra fiera delle “opinioni a buon mercato” – spesso costruite sui titoli ad effetto dei giornali e propinate da “tuttologi” professionisti – non è la migliore alleata perché ciascuno di noi possa accrescere la propria conoscenza e consapevolezza circa gli aspetti problematici di un tema così complesso. Importante allora soffermarsi a riflettere con maggiore profondità su quali siano i significati e i valori effettivamente messi in gioco nell’esperienza del fine-vita. A cominciare dalla vita umana in se stessa.
Beh, a voler essere sinceri, la vita umana come tale in realtà non esiste; si tratta di una concettualizzazione, di un’astrazione logica.
Ciò che esiste davvero sono le persone umane viventi, con un volto, un nome e una storia unica ed irripetibile.
Dunque, anche se per comodità terminologica continuiamo a riferirci alla vita umana, non bisogna mai dimenticare che stiamo ragionando di persone concrete.
Ecco, questa vita umana (e quindi, la persona umana vivente) è un bene in se stessa, poiché radicalmente contrassegnata da una dignità (un valore) peculiare ed inalienabile; essa è capace di lasciare un’orma indelebile nella storia dell’universo attraverso le proprie scelte morali.
Un tale bene, di conseguenza, esige di essere promosso e tutelato per primo rispetto a tutti gli altri “beni” della persona.Sarebbe infatti paradossale che la realizzazione della propria libertà o autodeterminazione, o di altri beni personali parziali, venisse assolutizzata fino al punto di portare alla distruzione della vita, vale a dire della condizione stessa di possibilità della loro esistenza. In tal caso, per essere totalmente liberi, si finirebbe per distruggere la stessa radice della libertà.
Sussiste pertanto il dovere morale di “conservare” (nel senso di promuovere, tutelare e prendersi cura) la vita umana, tanto la propria quanto quella altrui, secondo le proprie responsabilità specifiche.
Spostiamo adesso lo sguardo sulla salute. Come dimostra la comune esperienza, per la persona umana, l’essere in buona salute rimane una condizione vitale generalmente favorevole al perseguimento della propria realizzazione. Perciò si può dire che la salute costituisce un “bene utile” per la persona, nella misura in cui semplifica il compimento delle proprie finalità e della propria esistenza. Va da sé che, proprio in quanto bene utile – e ancor più che l’essere in vita -, la salute non rappresenta certo un bene assoluto, come del resto testimonia la storia di tante persone “malate” in modo inguaribile, che hanno comunque potuto realizzare con significato pieno la propria vita.
Sussiste quindi il dovere morale di “conservare” (nel senso di curare, tutelare e promuovere) la propria salute e di adoperarsi per recuperarla, nei limiti del possibile, quando essa è danneggiata (malattia). Ma anche questo dovere, in talune circostanze, può cedere il passo al perseguimento di valori più alti, come la carità o la giustizia. In fondo, è l’esperienza vissuta da chi, quotidianamente, “consuma” (mettendola in gioco) la propria salute per prendersi cura di qualcun altro, proprio come fa un genitore nei confronti del proprio figlio per aiutarlo a crescere. (1- continua)
Maurizio Calipari