Il restauro del ritratto settecentesco di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, opera di Pietro Santi (1737-1812), sarà illustrato il 28 marzo alle ore 17 presso il Museo della Città di Rimini (dove è conservato), da Adele Pompili che lo ha eseguito, e dallo studioso Piergiorgio Pasini.
Pure la figura di Bertòla (1753-1798) meriterebbe un analogo lavoro, per togliere da essa la polvere della dimenticanza che, non soltanto a Rimini, talora la rende invisibile. Il bicentenario della nascita lasciò un volume di oltre 300 pagine. Quello della morte un’altra opera ancora più consistente. Ma se apriamo il recente secondo tomo dell’Atlante della letteratura italiana (Einaudi), troviamo che nelle sue 900 pagine al Nostro sono dedicate soltanto pochissime righe: riguardano un testo importante, La filosofia della storia, una cui edizione è uscita a Napoli nel 2002 a cura del prof. Fabrizio Lomonaco.
Nessuno ha mai pubblicato i 26 fogli d’un Diario conservato in Biblioteca Gambalunga di Rimini, importanti per ricostruire correttamente gli ultimi anni della vicenda esistenziale e politica di Bertòla, tra giugno 1793 e gennaio 1797.
Gran parte dell’interesse degli studiosi verso Bertòla è stata determinata dalla volontà di presentarlo come uno dei massimi esponenti della cultura rivoluzionaria filofrancese e della massoneria, dimenticando la matrice religiosa del suo pensiero filosofico. E per far ciò lo si è persino censurato, come per il brano tagliato da Vincenzo Ferrone nel libro I profeti dell’Illuminismo (p. 268). Per Bertòla la massoneria è nient’altro che filantropia.
Nel novembre 1796 egli è a Bologna, mirando poi a trascorrere l’inverno a Firenze. A molti suoi corrispondenti egli lascia credere d’aver abbandonato Rimini per recarsi a Pavia, allo scopo di ottenere la pensione e di riscuoterne gli arretrati per la cattedra di Storia, abbandonata nel 1793 a causa della malattia. Nel Diario il giorno 13 novembre annota la lettera inviata ad una sua grande benefattrice, la poetessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati: “Su le ragioni del mio partire; nessuno può accusarmi né qual cattolico né qual suddito, dunque son tranquillo. Non so quel che farò”.
La Firenze governata da Ferdinando III di Lorena (fratello dell’imperatore d’Austria Francesco II), doveva essere una tappa intermedia d’un viaggio sino a Vienna. Dove era ben conosciuto ed aveva soggiornato nel 1778, all’epoca della Nunziatura del riminese card. Giuseppe Garampi che gli aveva poi (1783) procurato la cattedra pavese.
Bertòla cerca di sottrarsi al clima politico creatosi all’interno dello Stato della Chiesa dopo l’armistizio con Napoleone del 23 giugno 1796. Il 18 ottobre da Forlì è cominciata in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, portati il 19 a Rimini e di lì trasferiti nel forte di San Leo. Anche Bertòla corre il rischio d’essere incarcerato nella caccia ai sostenitori del partito oltremontano, per la sua fama di illuminato.
Il destino vuole che la malattia lo blocchi a Bologna che dal 16 ottobre fa parte della Cispadana. Il tipografo-libraio veneziano Giacomo Storti rimprovererà a Bertòla di non esser passato allora da Bologna a Padova, dove stazionava l’armata austriaca: di lì avrebbe potuto facilmente raggiungere Vienna.
Il 28 novembre Bertòla si rivolge ancora ad Orintia: <+cors>“Ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono senza un soldo. […] quella piccola pensione mi basterà fino a miglior sorte”<+testo>. Il 2 novembre le aveva già scritto: “che mi procuri il sussidio; e torno al nido; ma nell’incertezza m’espongo alla mendicità”.
Il ”Diario” è importante anche per quanto vi è taciuto dopo il 15 gennaio 1797. Altre fonti di Bertòla ci narrano della sua fuga a Roma dopo quel giorno. L’11 febbraio Bertòla spiega a Lorenzo Mascheroni d’essersene andato da Rimini per sottrarsi “all’imminente pericolo d’essere arrestato e condotto in assai miser luogo, come uomo di opinioni infette e perverse”.
Nel marzo 1798 è a Milano. Poi torna a Rimini, nel suo casino a San Lorenzo a Monte. Aggravatosi, Bertòla è portato in casa Martinelli in via Serpieri. Qui muore il 30 giugno. Nel registro dei defunti è detto Civis Ariminensis. Il notaio lo definisce anche Sacerdote.
Antonio Montanari
Nell’immagine, il ritratto prima del restauro.