Qualcosa non quadra, nel mondo della ricerca universitaria italiana. È inutile girarci attorno, e non lo si scopre certamente oggi. Le immagini dei ricercatori che sfilano per le strade delle più importanti città universitarie della Penisola, gridando e protestando contro la classe politica di turno, non sono una novità. Sono immagini che tutti abbiamo bene chiare in testa da almeno 6 anni, cioè da quel 2011 che ha visto l’entrata in vigore delle legge Gelmini e che ha trasformato i ricercatori italiani in una specie in via di estinzione. Pochi però, che non siano addetti ai lavori, sanno con precisione il perché di quelle tante e diffuse proteste. Daniele Rinaldi, riminese, è un Ricercatore e Professore Aggregato di Fisica presso l’Università Politecnica delle Marche. Esperienza ultraventennale alle spalle e un curriculum di tutto rispetto, vantando ricerche di livello internazionale, è Team Leader del gruppo UPM presso il CERN di Ginevra. Ma, nonostante tutto questo, si trova a far parte di una classe di lavoratori italiani del tutto sprovvisti di uno stato giuridico che li identifichi e li tuteli adeguatamente, e senza prospettive di avanzamento di carriera all’orizzonte. Completamente abbandonati a sé stessi. Da interno al sistema, Daniele Rinaldi racconta la situazione della ricerca italiana, permettendo di mettere in luce, nei dettagli, i tanti problemi che la affliggono, e prospettando possibili soluzioni.
Professor Rinaldi, ci parli dello stato dell’arte. Come sono nati i problemi?
“I veri problemi, per noi ricercatori, sono nati con l’entrata in vigore della legge 240 del 2010, la cosiddetta Riforma Gelmini. Con questa riforma il ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato, gli RU (Ricercatori Universitari), è stato messo definitivamente a esaurimento. Restano solamente i Professori Associati e i Professori Ordinari, e questa cosa è gravissima”.
Che cosa implica?
“I Ricercatori rappresentano quasi il 50% dell’intero ruolo docente universitario. Questa messa a esaurimento, per di più posta in essere senza alcun confronto politico, rappresenta un fatto unico nel mondo del lavoro per entità e dimensioni. Non dimentichiamo il ruolo fondamentale dei Ricercatori, impegnati non solo nella ricerca ma anche nella didattica. Al nostro posto, la Riforma ha introdotto due nuove figure: i Ricercatori a tempo determinato di tipo A e B, i cosiddetti RTDa e RTDb”.
Di che si tratta?
“A livello formale sono veri e propri lavoratori subordinati che entrano in Università con regolare concorso pubblico e che svolgono puro lavoro di ricerca, senza differenze sostanziali tra le due tipologie. La vera differenza sta nelle prospettive future: l’RTDa può prorogare il proprio contratto per due anni, una sola volta, previa valutazione della propria attività. L’RTDb, invece, appena vinto il concorso, si vede assegnare, fin da subito, il budget per il futuro ruolo da Professore Associato, ruolo che assumerà alla fine dei tre anni di contratto previo superamento dell’abilitazione scientifica nazionale (ASN). Ciò significa che, tre anni prima di avere a tutti gli effetti un Professore Associato, le risorse sono già allocate, e ciò porta alla prassi di spingere per far avanzare di carriera il Ricercatore, per non creare un buco di ruolo e di risorse”.
Esiste però una verifica delle competenze: l’ASN.
“È vero, però è un altro elemento che non funziona, i cui effetti sono a dir poco paradossali e contraddittori”.
Perché?
“Abbiamo detto che un Ricercatore di tipo b, dopo i tre anni di contratto di ricerca, deve ottenere l’ASN per poter diventare Professore Associato. Ma come viene condotta la verifica per rilasciare questa abilitazione? Attraverso un algoritmo che considera criteri bibliografici, cioè quante pubblicazioni e quante citazioni ha prodotto il Ricercatore, ma che lo fa analizzando solo gli ultimi cinque e dieci anni di carriera dell’esaminato. È evidente come questo sistema non possa dare un giudizio veritiero della carriera di un Ricercatore, fatta fisiologicamente di alti e bassi, senza considerarla nel suo complesso, nel suo essere un percorso. Per intenderci, Peter Higgs, lo scienziato che dà il nome al bosone di Higgs, ad oggi non riceverebbe l’abilitazione scientifica nazionale in Italia. Roba da pazzi”.
Come risolvere questo assurdo?
“Faccio parte del Coordinamento Nazionale dei Ricercatori Universitari (CNRU) e, lo scorso 24 febbraio, sono stato personalmente a Roma, con una delegazione, per un incontro con Sabrina Bono, Capo di Gabinetto del Ministero dell’Istruzione per illustrare un nostro progetto di riforma e di riorganizzazione dello stato giuridico dei Ricercatori italiani, abbandonati alla marginalizzazione e al precariato”.
Ci parli di questo progetto.
“La nostra proposta consiste nell’istituire la Fascia Unica per la Docenza. Cosa significa? Significa azzerare la dicotomia a/b e creare un’unica fascia in cui far confluire tutti i Ricercatori, sia quelli subentrati dopo la riforma Gelmini sia i vecchi RU, precedenti alla riforma. E tutta questa fascia rappresenterebbe un livello d’ingresso nel ruolo dei docenti, organizzati secondo graduatorie interne, in modo da togliere i vecchi Ricercatori dalla marginalizzazione e dalla competizione con i nuovi RTD. Una soluzione, questa, a costo zero, perché non chiediamo aumenti di stipendio, ma la possibilità di essere parte di un sistema che permetta un avanzamento di carriera. Siamo stati soddisfatti dell’incontro, ora dobbiamo sperare che la proposta venga accolta e che si tramuti in legge”.
Ma il sistema organizzativo dei Ricercatori non è l’unico problema, vero?
“Assolutamente no. C’è un altro problema, il vero problema, che poi produce tutti gli altri: il crollo dei finanziamenti alla ricerca italiana negli ultimi anni, e la conseguente scarsità cronica di risorse. In Italia ci sono diversi modi per ottenere fondi per la ricerca. Ci sono i fondi che l’Università mette direttamente a disposizione del singolo ricercatore, ma in Italia, in media, un singolo finanziamento ammonta a 2.500-3.500 euro, che per un progetto è ridicolo. Basti pensare che una buona attrezzatura può costare anche un milione di euro. Oppure c’è il Finanziamento Nazionale, che lo Stato concede con i cosiddetti PRIN, cioè i Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale. Peccato che, però, lo scorso anno solo un 4% dei progetti presentati è stato accettato, con un finanziamento concesso di soli 92 milioni di euro, a fronte dei due miliardi richiesti”.
Chi fa le spese di questa situazione?
“Tutti quanti. Perché si innesca il solito e vergognoso meccanismo dello scontro generazionale. La mancanza di risorse, unita al sistema organizzativo dei ricercatori analizzato prima, che non tiene conto delle lunghe carriere dei ricercatori più anziani, porta all’idea che i giovani rubino il lavoro agli anziani e viceversa. E questo è vergognoso, perché l’Università italiana ha bisogno di entrambi i gruppi. Il vero problema non sono le differenze generazionali, ma il fatto che l’intero sistema è sottofinanziato, e questo rischia di produrre una stupida guerra tra poveri, in cui tutti perdono”.
C’è, infine, un’ultima criticità da affrontare. Il sistema delle pubblicazioni.
“Esatto. Abbiamo visto come l’abilitazione scientifica in Italia si ottenga con un algoritmo che valuta le pubblicazioni e le citazioni di un Ricercatore. Pubblicazioni che dovrebbero essere il prodotto di una ricerca libera, non condizionata da alcun fattore esterno. Purtroppo, però, così non è, perché le pubblicazioni sono in mano alle case editrici delle riviste scientifiche che, di fatto, condizionano il mondo della ricerca”.
In che modo?
“Decidendo, attraverso un sistema di parole chiave, cosa è di moda, a livello scientifico, in un determinato periodo storico. E, quindi, solo articoli di determinati argomenti avranno maggiori probabilità di pubblicazione, portando i ricercatori ad essere incentivati, in modo non libero, a fare ricerca solo su quei temi. Inoltre, altra assurdità, nel momento in cui io, ricercatore, produco un articolo, devo cedere i miei diritti d’autore alla casa editrice, che potrà così vendere la pubblicazione, ad esempio, alla mia stessa Università. In questo modo si crea il paradosso per cui io vendo la mia pubblicazione a me stesso”.
È possibile cambiare questo sistema?
“In teoria si, e una possibile soluzione è stata suggerita addirittura dall’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il quale, negli ultimi anni, ha spinto per il libero accesso ai risultati della ricerca pubblica. Ciò rappresenta, di fatto, un invito agli operatori del mondo della ricerca a rivolgersi sempre di più alle case editrici free access, aperte al pubblico, e non più a editori privati, legati ai propri interessi aziendali prima che alla libera ricerca scientifica”.
Simone Santini