Rigoletto inaugura la stagione di Roma con un pregevole allestimento per il cast, la bacchetta di Daniele Gatti e la regia di Daniele Abbado
ROMA, 15 dicembre 2018 – Ascoltare dopo molti anni Rigoletto con la direzione di Daniele Gatti provoca una sensazione inedita: qualcosa di profondamente diverso rispetto a quanto sentito a Bologna nel 2004, quando era ancora direttore al Comunale.
Il capolavoro verdiano, che ha inaugurato la stagione operistica di Roma, segna l’inizio formale della collaborazione fra il Teatro Costanzi e il maestro milanese in qualità di direttore musicale. La sua interpretazione restituisce una fedeltà alla partitura che si rivela modernissima e, oltre tutto, procede in un’ideale simbiosi con la regia di Daniele Abbado, asciutta e antiretorica. Dopo un primo atto assai scabro, dove il cantar parlando sembra quasi oltrepassare il recitar cantando (espunte quasi tutte le puntature di tradizione), il suono si fa più corposo e avvolgente: la lettura resta livida, ma la temperatura drammatica aumenta progressivamente. Ben corrisposto dall’orchestra romana, Gatti distilla momenti molto felici (ottimi tutti gli interventi corali dei cortigiani, ben delineati i differenti piani sonori nel primo atto e pulsante, senza tentazioni da tregenda, la tempesta nell’ultimo). I tempi sono tendenzialmente rapidi, fedeli più al dettato verdiano che alla tradizione: anche se talvolta la cura del singolo dettaglio va a discapito della grande arcata complessiva.
La regia di Abbado illumina soprattutto i rapporti fra i personaggi e le loro dinamiche. La vicenda viene trasferita durante gli ultimi fuochi del fascismo – siamo verosimilmente a Salò – con poche, mirate allusioni alla violenza di quegli anni (di grande impatto il finale del primo atto, quando i rapitori di Gilda puntano la pistola contro Rigoletto): ma, al di là della cornice, si tratta di un fascismo soprattutto mentale, come quello che traspare in certi romanzi di Moravia. La struttura scenica di Gianni Carluccio – una gabbia metallica che si apre mediante semplici spostamenti, stilizzando l’incessante dialettica tra ambienti interni ed esterni su cui si basa il libretto – evoca con pochi elementi essenziali la visualità di quegli anni, riuscendo a risolvere in modo efficace anche il problema dell’orchestra sul palco, durante la festa del Duca. Il lavoro del regista è sempre molto attento agli aspetti psicologici e ogni singolo gesto è accuratamente calibrato, con un finale poetico e visionario: Gilda agonizzante si alza e si allontana di qualche passo da Rigoletto mentre cala il buio su di lei, in una morte trasfigurata che l’affranca per sempre dall’ossessivo attaccamento del padre.
Di tante cure e attenzioni, musicali e registiche, si avvantaggiano gli interpreti che appaiono tutti molto attenti alle sfumature. In veste di protagonista, Roberto Frontali s’impone per forza espressiva: se il timbro è ormai arido, il fraseggio è assai ricco di contrasti; se il declamato prevale sul cantabile, la proiezione del suono è quella del baritono solidissimo anche sotto il profilo tecnico. La splendida Lisette Oropesa disegna una Gilda perfetta nel suo equilibrio fra solidità dell’emissione – un suono sempre ricco di riverberi e vibrazioni – e virtuosismo, rendendo plausibile la sua aspirazione a immolarsi: una vittima che trova nella morte l’affermazione della propria autonomia. Il ruolo del Duca di Mantova era affidato a Ismael Jordi, forse la figura meno risolta in questa cornice (difficile fare di un fascista il personaggio più accattivante dell’opera): soprattutto nelle arie è sembrato riallacciarsi all’antica tradizione del Duca come tenore di grazia, mentre nel duetto con il soprano Jordi ha sfoderato tutto il suo armamentario d’illustre stilista donizettiano. Ne sortisce una prestazione di volta in volta pertinente, ma un po’ ondivaga.
Decisamente meno bene gli altri: sbiadito e incline a stimbrarsi Riccardo Zanellato come Sparafucile, poco incisiva la Maddalena di Alisa Kolosova, spesso in affanno per lo scarso volume vocale il Monterone di Carlo Cigni. Apprezzabili invece alcuni comprimari: degni di nota soprattutto Antonio Taschini come Ceprano (il più “fascista” di questi cortigiani di Salò) e Irida Dragoti, una Giovanna che non ha niente dello stereotipo della vecchia mezzana. Ottimo il contributo del coro, preparato come sempre da Roberto Gabbiani: sia per appiombo vocale sia per la capacità di creare un autentico personaggio collettivo.
Giulia Vannoni