“Resta in ascolto che c’è un messaggio per te e dimmi se ci sei”. Reduci dall’esperienza sanremese non potevamo affrontare un tema così importante come è la comunicazione senza citare uno dei versi più belli della canzone italiana che decanta l’ascolto e l’amore, due schede dello stesso e non facilissimo puzzle delle relazioni che ogni giorno si stringono tra le persone. Su questo argomento si è concentrato il professore Guido Gili, docente di Scienze della comunicazione all’Università del Molise e di Scienze Politiche alla Luiss a Roma, invitato dalla Pastorale giovanile di Rimini per spiegare indistintamente a giovani e adulti come ascoltare. Sempre restando nell’ottica del Sinodo dei giovani e ricollegandosi al primo incontro nel quale il gesuita Giuseppe Bertagna ha risposto alla domanda “Perché ascoltare?”, indagando i motivi spirituali dell’ascolto, Gili si è soffermato sul “Come ascoltare ” e sui processi che determinano le relazioni e la comunicazione più in generale.
Professore, perché ascoltare?
“Ascoltare significa immedesimarsi in un’altra persona aprendo il cuore ad essa senza creare una comunicazione autoreferenziale molto affine al ‘burocratese’. Uno dei difetti che ci unisce oggi è il non avere la volontà di capire gli altri. Quando non comprendiamo chi abbiamo di fronte a noi la comunicazione collassa, diventa fasulla. Per questo siamo assaliti dal rischio dello pseudo-ascolto che avviene quando si comunica con se stessi”.
Che cos’è la comunicazione?
“Esistono tre grandi definizioni. Stando alla prima comunicare vuol dire trasmettere un messaggio da un soggetto a un altro suo interlocutore. Questa definizione si lega al fatto che essa contiene sempre un elemento di annuncio, di novità. I termini che si legano ad essa sono: trasmissione, diffusione, messaggio, notizia. Quindi la comunicazione da intendere come notizia. Anche se spesso si ripetono concetti che già conosciamo noi ribadendoli li richiamiamo alla mente. C’è da dire, infatti, che l’informazione è una risorsa molto particolare con caratteristiche che non hanno invece le risorse materiali. Essa è una risorsa a somma positiva perché nel momento in cui io ti dico una cosa non me ne privo, ma mi sforzo per rendere questa cosa più chiara anche a me stesso. Ancora, la comunicazione è costruire, elaborare e condividere dei significati. Quando sentiamo una persona che dice qualcosa gli chiediamo cosa intende davvero o quale è il senso. In questo caso mettiamo in rilievo la dimensione del significato. Infine, comunicare significa costruire delle relazioni tra le persone. La comunicazione è essa stessa una dimensione della relazione. Da questo punto di vista a questo terzo significato si legano parole come comunità, consenso, comunione che vogliono dire/fare qualcosa assieme, possedere qualcosa insieme. Queste le tre definizioni classiche”.
Lei ha parlato di struttura della comunicazione, di cosa si tratta?
“La struttura è un po’ lo scheletro della comunicazione. Ciascun elemento che la compone e la rende possibile è pari a un osso del corpo umano. Parliamo in questo caso di elementi fissi e ricorrenti della comunicazione. Quelli che ci devono essere assolutamente. Da 70/80 anni gli esperti hanno proposto veri e propri elenchi di questi elementi con una propria organizzazione. La forma più classica sviluppata alla fine degli anni ’40 potrebbe essere riassunta da alcune domande: ‘Chi dice? Che cosa? A chi? Con quali mezzi? Con quali effetti?’. Dietro ognuna di queste domandine si nasconde un elemento: soggetti agenti (emittente e ricevente), il contenuto della comunicazione, i codici, sistemi di riferimenti attraverso cui noi comunichiamo e il canale vocale-orale o visivo-gestuale. I primi elementi della costruzione comunicativa sono questi. Questi, poi, tralasciano tre altri elementi fondamentali subentrati con gli anni: gli scopi (senza lo scopo non capisco la comunicazione), le norme e il contesto in cui la comunicazione avviene”.
Gli esseri umani sono ‘simili e diversi’. Da quali basi parte questa curiosa definizione?
“Più che di esseri umani, la teoria della comunicazione parla di ‘soggetti agenti’ che sono coloro che comunicano: prima di distinguere tra emittente e ricevente, infatti, dobbiamo specificare che i soggetti sono simili e diversi. Questo rende la comunicazione facile e difficile. Se io vedo un mio amico che ride e che piange io so interpretare cosa sta facendo. Perché lo so comprendere? Perché io nella mia esperienza so cosa voglia dire perché ho riso e pianto anche io. Quindi c’è una analogia tra le sue espressioni e i miei vissuti. Io non so cosa c’è nella tua testa ma posso solo vedere e interpretare le tue espressioni esterne. Questa è la grande scommessa della comunicazione perciò è difficile perché l’altro è un altro da me, non sono io. Diventa ancora più difficile quando comunico con le persone che mi sono più vicine e affini, perché sanno già come la pensi, perché la pensano come te, quindi devi impegnarti per usare un linguaggio più articolato e approfondito al fine di non rendere la comunicazione banale, ma sempre interessante”.
Perché la comunicazione qualche volta riesce e altre no?
“È un evento improbabile. È una scommessa. È un rischio. Non è elementare. Come essa diventa più complicata si capisce come sia sottoposta a questa radicale improbabilità. Noi siamo esseri che comunicano intenzionalmente. Lei ora mi chiederà cosa intendo. Bene. Nel momento in cui comunico sono consapevole che sto comunicando. Esercito una riflessività su ciò che sto facendo. La nostra comunicazione è sempre caratterizzata da motivazioni e da precisi scopi: io so cosa sto facendo. Questo ci distingue da un computer che non ha emozioni e non ha scopi. Abbiamo sempre delle motivazioni e un’apertura al mondo e agli altri: siamo quindi riflessivi e aperti. Tuttavia, nel nostro quotidiano comunichiamo come persone ma anche sulla base del ruolo che rappresentiamo. Nel concreto si tratta di sistemi di aspettative reciproche che servono a semplificare la relazione e che rendono la comunicazione più efficiente tanto che limita il conflitto. La comunicazione di ruolo è più rapida perché dà per scontato molti aspetti che altrimenti dovremmo prima conoscere”.
Infine, ciascuno di noi è insieme animatore autore e mandante?
“Come dice lo studioso Erving Goffman l’animatore è la macchina parlante, cioè colui che emette un messaggio. È la buccia dell’arancia, quella parte del frutto che vediamo. Poi c’è l’autore, cioè colui che ha costruito il messaggio. Il mandante, poi, va inteso in senso giuridico: colui in nome del quale e per conto del quale io parlo. Assume la responsabilità di ciò che viene detto. I tre ruoli possono anche coincidere e coesistere ma possono anche essere divisi come avviene quando si presenta una pubblicità dove c’è l’attore che porta in scena un prodotto pensato da altri. Pensiamo poi a Gesù: egli era l’animatore di quello che diceva, era l’autore quando diceva ‘Gli antichi vi hanno detto e io vi dico’. Ma non era il mandante: era un altro che lo mandava anche se spesso in Lui si presenta la reciprocità di questi ruoli”.
Alessandro Notarnicola