L’opera che nel 1857 ha inaugurato il Teatro riminese, tra le meno rappresentate di Verdi, è andata in scena all’Alighieri di Ravenna
RAVENNA, 16 gennaio 2022 – Dimenticare Rimini. Non è possibile, però: la voce registrata di Ermanna Montanari, che precede la messinscena di Aroldo all’Alighieri di Ravenna, rievoca i tragici bombardamenti del 1943 che colpirono anche il teatro per il quale era nata l’opera di Verdi nel 1857 (riadattamento del suo precedente Stiffelio incappato nelle maglie della censura). Una spiegazione concepita forse per giustificare le scelte drammaturgiche, soprattutto quelle che riguardano il salvataggio dello storico sipario riminese del Coghetti: presenza visiva fondamentale di questo allestimento. Rimane però il dubbio se l’intervento dell’attrice fosse veramente necessario.
Lo spettacolo, che porta la firma registica di Emilio Sala ed Edoardo Sanchi, aveva già debuttato a Rimini lo scorso agosto in una versione definita – con espressione oggi di gran moda – “site specific”: per Ravenna, prima tappa di un itinerario che porterà Aroldo anche a Piacenza e Modena, la messinscena ha subito vistose modifiche che la rendono molto più leggibile, pur non essendo riuscita a liberarsi completamente da una certa macchinosità. Sfrondato da alcune ingombranti strutture sceniche, come i tubi innocenti, e soprattutto rischiarando quel buio oppressivo che impediva di cogliere anche i dettagli della gestualità degli interpreti, l’aspetto visivo ci guadagna. Non sempre funziona, invece, il trasferimento della vicenda al periodo del ventennio (il libretto di Piave è ambientato nel tredicesimo secolo, durante le crociate), con il protagonista trasformato in un reduce della guerra di Abissinia. La sovrapposizione con i valori incarnati dalla retorica fascista, ribaditi da parole-simbolo illuminate al neon, rende il perdono che alla fine Aroldo concede alla moglie fedifraga poco plausibile. Vorrebbe essere lo specchio di quella riconciliazione politica avvenuta dopo una guerra devastante, e persino riecheggiare la contrastata ricostruzione del teatro riminese (dopo ben settantacinque anni!), mentre finisce per apparire un po’ forzato, perdendo – quanto meno – quella dimensione intimistica e catartica che gli assegna la musica di Verdi.
L’aspetto più interessante della nuova versione riguardava comunque il lato musicale, a cominciare dall’Orchestra Cherubini, fortunatamente allocata in buca e non più dispersa in palcoscenico come fu a Rimini: sotto la guida anelastica e ritmicamente rigorosa di Manlio Benzi, i giovani strumentisti hanno suonato molto bene. Il direttore non concede troppo ai cantanti in termini di libertà espressiva, ma il nuovo cast, quasi completamente cambiato, non ne ha bisogno perché il terzetto protagonista può contare sulla solidità del mestiere. A cominciare dal tenore, Luciano Ganci, che – dopo essere stato Stiffelio nell’allestimento di Graham Vick a Parma – disegna un Aroldo vocalmente appagante, tratteggiando un personaggio in cui si legge una bontà di fondo: più credibile, dunque, quando si mostra vinto dal dolore piuttosto che intransigente nel punire il tradimento. Accanto a lui Roberta Mantegna, grazie a un’emissione sempre omogenea e un canto sensuale non tanto per colore, quanto per morbidezza, incarna una Mina dalle molteplici sfumature psicologiche: afflitta e pentita, combattuta fra l’amore per Aroldo e il rimorso per il tradimento. Baritono di lunga esperienza verdiana, in virtù di un’arte del porgere di antica e solidissima scuola, Vladimir Stoyanov declina il ruolo di Egberto più sul versante del “padre nobile” che su quello del “padre giustiziere”, tanto che la sua trasformazione in Podestà appare talvolta dissonante con il ritratto vocale che modella.
Apprezzabili il secondo tenore Riccardo Rados, nei panni del seduttore Godvino, e il basso Adriano Gramigni, in quelli del fedele Briano: personaggi molto valorizzati nello spettacolo, l’uno grazie al flash-back iniziale che lo ritrae nell’amplesso con Mina (ha curato i movimenti scenici Isa Traversi), l’altro per la vera e propria metamorfosi cui la drammaturgia di Sala e Sanchi lo sottopongono (diventa un ascaro reduce dalla guerra d’Africa insieme al protagonista). Pregevole, infine, il contributo del Coro Municipale di Piacenza, come di consueto ben preparato da Corrado Casati: il pubblico gli ha tributato giusti applausi, così come ha festeggiato orchestra, direttore e cantanti. Peccato che, a farlo, fosse un numero piuttosto limitato di spettatori. Ma per contingenti ragioni sanitarie, non certo per disattenzione verso Verdi e quest’opera ancora in cerca della sua definitiva collocazione.
Giulia Vannoni