E’ risaputo che in Romagna gli Etruschi non solo risultano presenti fin dalle fasi della loro formazione, tra X e IX secolo a.C., ma già nei secoli VIII e VII il centro di Verucchio appare come uno dei più floridi e dinamici del mondo etrusco e italico, e in ogni caso costituisce una vera e propria capitale per l’enclave villanoviano della Romagna. Nell’ultimo scorcio dell’età del Bronzo le genti protovillanoviane abbandonano i loro villaggi, costituiti al massimo da qualche decina di individui, prevalentemente tutti imparentati tra loro, e si stabiliscono appunto sul colle di Verucchio (a circa 300 metri sul livello del mare) per cause ancora non chiare, dando origine a un accentramento di cultura villanoviana che si sviluppa nel corso della prima età del Ferro (cioè tra IX e VIII secolo) e sopravvive anche per tutto il VII e per uno scorcio del VI.
Pertanto, già alcuni secoli prima del 268 a.C. – che secondo la tradizione è l’anno di fondazione di Ariminum, la più vetusta città romana della Romagna alla foce del fiume Ariminus (l’odierno Marecchia) – esisteva una ben più antica Ariminum, ovvero l’etrusca Arimina o Arimna (ovvero la Verucchio villanoviana).
Tomba 89: la prova di un personaggio regale?
Ma sono le necropoli ad attestare inequivocabilmente l’importanza raggiunta da alcuni eminenti personaggi nell’ambito della raffinata aristocrazia verucchiese: in particolare la Tomba 89 della vastissima necropoli Lippi, ubicata proprio sotto la Rocca Malatestiana e appartenente a un regulo locale, che ha restituito un ricchissimo corredo deposto entro una cassa sopra la quale era stato collocato un trono ligneo, che mostra sorprendenti attinenze col trono di Olimpia, quel trono descritto da Pausania e dal quale si è partiti per indagare e analizzare la figura misteriosa di Arimnestos. Il trono in quanto oggetto di ostentazione di ricchezza e status sociale affonda le sue radici ideologiche ed espressive nei regni orientali, dove in effetti è associato a personaggi regali, come testimoniano diversi documenti archeologici e iconografici a partire dalla seconda metà del IX secolo a.C. Le scene intagliate su questo straordinario prodotto locale costituiscono veri e propri spaccati di vita quotidiana, ovvero eventi reali che fanno percepire i caratteri distintivi di una società evoluta e culturalmente raffinata e, per quel che ci interessa, ostenta i connotati di un personaggio di rango sociale elevatissimo. La valenza principesca della sepoltura è avvalorata oltre che dal trono, anche dalla cassa di legno all’interno della quale vi erano numerosissimi oggetti di corredo: una situla di bronzo usata come cinerario, la quale come coperchio aveva un grande scudo anch’esso bronzeo, un altro scudo ma miniaturizzato, due lance e un giavellotto, due spade corte, quattro coltelli, tre indumenti (due mantelli e un abito), decine di fibule, due affibbiagli, bottoncini conici in ambra, un flabello (manico di ventaglio), un elmo crestato a due speroni laterali di tipo “villanoviano”, un elmo conico con cimiero a crine di cavallo di tipo “piceno”, tre asce, un suppedaneo (poggiapiedi) in legno intagliato, un copricapo a calotta in vimini con borchie metalliche, tre carri, elementi della bardatura equina, un cofanetto in legno, numerosi vasi fittili lignei e bronzei, offerte alimentari con resti di animali e vegetali. Di grande importanza, infine, la presenza di uno scettro tubolare in bronzo, consistente in un’ascia immanicata, arma di chiara valenza simbolica connessa all’esercizio del potere politico ma anche religioso, entro una fase cronologica compresa tra la fine dell’VIII e la prima metà del VII secolo a.C., dunque nella fase che ci interessa. Tanto più che anche altri oggetti deposti nella sepoltura assumono un carattere fortemente simbolico e alludono al potere politico e militare assolto in vita, mettendone in rilievo soprattutto il ruolo di guerriero e di magistrato e ciò a prescindere dalla palese ricchezza e sontuosità del corredo.
Non c’è dubbio, dunque, che questi connotati simbolici relativi al personaggio aristocratico sepolto nella Tomba 89 – guerriero e sacerdote a un tempo – trovino una sorprendente quanto puntuale corrispondenza con le prerogative istituzionali dell’eminente personaggio citato da Pausania, Arimnestos.
Elementi iconografici: la città delle scimmie?
È ancora in terra di Romagna che si possono rilevare alcuni elementi di non trascurabile importanza. Abbiamo già considerato quelli relativi alla toponomastica, ma esistono anche alcune consonanze che hanno a che fare direttamente con un’altra rilevante disciplina, la glottologia, e che nel momento in cui si valutano devono essere messi in relazione ad alcune evidenze archeologiche, iconografiche e simboliche. Se inizialmente queste ultime possono apparire ricche di significati suggestivi, in realtà costituiscono ulteriori indizi per dar credito all’ipotesi che la valle del Marecchia sia stata veramente la patria o, in tutti i casi, abbia avuto a che fare con una gens di chiara ascendenza etrusca, ovvero quella a cui, nella fattispecie, viene convenzionalmente assegnato l’onomastico Arimina (o il più recente Arimna), come attesta chiaramente il nome del fiume Ariminus che da esso deriva.
Ora, considerando che il lemma etrusco *arim sta a significare «scimmia», – elemento fino a oggi pressoché ignorato dagli studiosi – è necessario in questa sede analizzare tale aspetto che potrebbe aprire un nuovo filone interpretativo assai interessante da valutare anche come una valida chiave di lettura, per comprendere la vera etimologia dei termini succitati con la medesima base glottologica *arim-, e quindi da mettere in relazione con l’interpretazione derivazionale dello stesso onomastico di Arimnestos. Tale elemento può trovare la sua ragion d’essere e allo stesso tempo il suo punto di forza nel fatto che la base *arim rappresenta una glossa assolutamente certa ed esatta nella presumibile ricostruzione della forma etrusca. Da ciò si deduce che Ariminus starebbe, seppure nella sua forma e accezione latinizzate, a significare letteralmente «fiume delle scimmie», e ciò induce a non escludere che gli Etruschi di Verucchio della fase villanoviana chiamassero la propria città Arim-ina (recente Arim-na), vale a dire «città delle scimmie». In questo caso non vi sarebbero dubbi riguardo lo stesso composto Arim-na che troverebbe piena corrispondenza con la forma onomastica, e cioè col nome della gens etrusca di Verucchio, o meglio «che ebbe a che fare con l’etruschizzazione della valle del Marecchia».
In questo caso Arim-nestos (in entrusco probabile Arim-neste) potrebbe essere stato il più alto esponente dell’aristocrazia etrusca di quella città che visse negli anni tra la fine dell’VIII e i primi decenni del VII secolo a.C., da identificare dunque con il potente re che offrì il trono allo Zeus di Olimpia.
Questa ipotesi troverebbe puntuali conferme archeologiche e iconografiche nel fatto che a Verucchio una ricca simbologia di motivi figurativi connessa alla scimmia appare su diversi oggetti e tutti in sepolture esclusivamente eminenti, il cui esempio più splendido è l’immanicatura in avorio con sembianze di scimmia appartenente a un coltello rinvenuto proprio nella Tomba 89 Lippi. Molto più diffusi risultano i nettaunghie, che sono presenti in numerose tombe, tra cui l’esemplare più significativo è proprio quello proveniente dalla Tomba 89, con la presa a forma di scimmietta rannicchiata, mentre in certi casi, unicamente riscontrati a Verucchio, le scimmie vengono raffigurate contrapposte. (2-continua)
Andrea Antonioli