Quando si parla di primati, si tende sempre ad associare il pensiero a qualcosa di talentuoso, a record raggiunti o a spiccate qualità emerse in vari contesti.
Ci sono però primati che – nostro malgrado – deteniamo, pur non desiderandoli.
È il caso di quello ottenuto da Antonio Barosi, nato il 16 maggio del 1881 a Santarcangelo e ucciso 34 anni dopo, all’alba del primo giorno della Prima Guerra Mondiale.
Il triste record sta proprio in questo: essere stato tra i primi morti della guerra del ’15 -’18.
Era infatti il 24 maggio 1915 quando il convoglio su cui viaggiava Barosi fu bombardato da una nave austriaca nei pressi di Senigallia: la tradotta militare venne colpita e 13 soldati persero la vita. Tra questi sfortunati, uno era il nostro concittadino. Quello che rimane di lui è il suo nome riportato su una lapide affissa al monumento eretto nella città marchigiana, in memoria delle vittime della Grande Guerra. Cosa ci sia di grande in una guerra, poi, è ancora da svelare: anche Giacomo Della Chiesa, meglio conosciuto come Papa Benedetto XV, per ben due volte rivolse un accorato appello contro quella che definiva “l’inutile strage”. Ma la sua “Lettera ai Capi dei popoli belligeranti” (questo il titolo esatto del documento da lui redatto e datato 1° agosto 1917) venne completamente ignorata. Anzi, le parole che ora – 100 anni dopo la fine del conflitto – suonano come scontate furono, all’epoca, totalmente disprezzate. “Orrenda carneficina che disonora l’Europa”, scriveva nella sua missiva il pontefice; queste parole non vennero considerate e nessuna nazione ebbe il presentimento che odi e rancori avrebbero generato, in futuro, ulteriori simili sentimenti.
Anche due anni prima, con l’esortazione apostolica del 28 luglio 1915, Papa Dalla Chiesa aveva avvertito che “…le nazioni non muoiono: umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta…”. Solo oggi, mentre si festeggia il centenario della fine di quei tremendi 4 anni di conflitti, quelle parole suonano particolarmente lucide e intelligenti, colme di umanità e realismo politico che sembrano spesso – in questo periodo – scapparci di mano con troppa facilità.
I resti mortali di Antonio Barosi, e quelli degli altri 12 soldati compagni di sventura, vennero quindi messi a riposare per l’eternità nella fossa n. 161 del campo comune di Senigallia e in seguito traslate all’interno del monumento ai caduti della stessa città, il 20 marzo 1970. Antonio non ritornò a casa nemmeno da morto, per poter essere pianto dalla mamma Luigia, dal padre Felice e dalla giovane sposa Maria. Le sue spoglie sono rimaste in un luogo lontano e sconosciuto e anche l’atto di morte è quasi anonimo: dai Registri del Comune risulta, infatti, essere stato redatto in maniera “particolare”, del tutto anomala, includendo più persone in un documento stilato di solito ad personam. Come tutte le vittime di guerra, anche il colono santarcangiolese Barosi rimane quindi solo un numero tra i tanti. Pochi giorni fa, il 24 maggio, ricorreva l’anniversario della sua morte; teniamolo in memoria almeno noi, anche per le generazioni future. Questo perché il suo sacrificio, come quello di altri, non risulti vano. E, soprattutto, perché resti impresso nella mente di chiunque che i primati da ricordare dovrebbero essere di tutt’altro genere.
Roberta Tamburini