Il tempo è Tuo, o Signore, fa che non lo sprechiamo inutilmente, ma che ogni momento possiamo giustificare l’utile impiegato”. È con queste parole, quasi un monito del Beato Alberto Marvelli, che si apre Le mie prigioni, la raccolta personale degli scritti di Antonio Antoni. Ad un anno dalla morte la sua famiglia, le sue figlie le hanno volute raccogliere, le prigioni di Antonio e farne un volumetto che accoglie pensieri, parole, ricordi, istanti e bellezza di una figura emblematica della storia dell’associazionismo riminese, ma soprattutto di un uomo unico.
L’indelebilità del ricordo
Indelebile, nella sua vita fu il periodo della prigionia in Germania. Forse l’unica vera prigione di Antoni, che ricordava drammaticamente, ma lucidamente e con dovizia di particolari… indelebili: “A metà marzo del 1944 ero ad Hannover in via Badenstadtstrasse 46, accampato in una scuola, sistemato in un letto a castello e a disposizione per varie richieste di lavoro che veniva assegnato ogni mattina su di una piazza, che dai prigionieri era chiamata «campo degli schiavi». In un punto particolare c’era un camper e un addetto, avvicinato dai richiedenti tedeschi, gridava con un megafono «zwei Stuck, zehn Stuck» e così tutti gli uomini venivano assegnati per i vari servizi urgenti. Dopo il bombardamento del Rathaus di Hannover io mi sono trovato in questo gran bel palazzo a sbadilare macerie. Tra i muri diroccati sono entrato in un locale che da noi corrisponde all’Ufficio Anagrafe. Per me è stato molto facile prendere varie carte d’identità nuove e diversi timbri che potevano convalidare tali documenti. Il tutto poteva venire utilizzato per organizzare una fuga, ma purtroppo, dopo una settimana, a seguito di un controllo della Gestapo, sono stato individuato e al rientro ero aspettato all’ingresso del Lager e subito avvisato che durante la notte sarei stato portato in uno Straflager. Con me vennero aggregati altri trenta uomini. In un furgone completamente chiuso, sono arrivato al mattino su di una bella collina coperta di pini e abeti. Nell’ammirare tanta bella vegetazione, io ho detto agli amici: «ci hanno portato a Cortina d’Ampezzo». Si è presentato un giovane ingegnere che ci ha passato in rassegna e ha chiesto ad ognuno che attività aveva praticato nel prorpio paese. Nel gruppo eravamo cinque studenti, allievi ufficiali dell’aeronautica, con un filetto d’oro attorno al bavero… Prima di interrogare noi, ha chiesto chi era in grado di fare un servizio sanitario. Io mi sono subito presentato disponibile, perché durante i mesi estivi di vacanze scolastiche avevo lavorato in uno stabilimento farmaceutico e, per questo, mi consideravo capace di fare il «Sanitater». Mi è stata consegnata una cassetta del pronto soccorso, ma non essendoci ancora un locale per tale servizio, io ero stato invitato ad andare nella Grube, come tutti gli altri ragazzi. Si trattava di ampliare, pulire e rafforzare degli spazi sotto la montagna dove avrebbero preso posto delle fabbriche che dovevano essere salvaguardate dai bombardamenti aerei. In un giorno di pioggia, mi sono trovato a spingere i carrelli con i piedi nell’acqua e, quando si arrivava all’uscita, ci si bagnava tutti. Ad un certo momento ho sentito il bisogno di invitare tutti gli uomini a non fare più niente, perché avrei voluto parlare con il direttore dei lavori. Venivo pregato dagli amici a non mettermi nei guai, perché potevo essere fucilato. Le guardie militari, urlando e minacciando, non intendevano darmi soddisfazione, ma io gridavo come loro e facevo capire che se sprecavano una pallottola per me, era lo stesso. Il dirigente è poi venuto e subito, avendo capito di cosa si trattava, ha provveduto per tutti un paio di stivali e un impermeabile.
La sveglia alle sei del mattino veniva data da una guardia che urlava «Aufstehen» e con un grosso bastone colpiva ripetutamente la parete esterna della baracca di legno, tanto che il risveglio si riempiva subito di paura. Su ogni tavolone, che andava da una parete all’altra e formava due piani, potevano dormire una ventina di uomini. Quando l’amico di destra o di sinistra non si muoveva, veniva scosso dalla mano di chi era sveglio; se poi quello non dava segni di vita, allora si sentiva urlare una lunga serie di improperi: «Imbecille, non potevi morire a casa tua?» oppure «Cretino, dovevi morire proprio oggi?» e ancora si continuava con una poco fiorita serie di insulti… e parolacce varie. Questa reazione era causata dal fatto che ciò succedeva d’inverno, quando la temperatura era verso i venti gradi sotto zero e per questo ragazzo bisognava prendere piccone e badile per scavare la fossa, trasportarlo con la cassa e sepperlirlo. Tale compito era riservato agli amici al posto-letto. Al solo pensare a questo impegno, gli interessati andavano su tutte le furie”.
Il periodo da «Sanitario»
“Era un sabato, allora ho pregato un collega, che era sarto, a prepararmi un bracciale con una Croce Rossa. Al mattino successivo, col nuovo bracciale e la cassetta di Pronto soccorso, sono passato dal cancello del campo di Holzen facendo un inappuntabile saluto militare alla sentinella di servizio, e ho proseguito con indifferenza, diretto al distaccamento di Escherhausen. Il mio comportamento non ha destato alcun sospetto, così sono riuscito ad arrivare in centro. In quel Lager c’era proprio il FeldWebel che, come mi ha visto, ha cominciato ad urlare come un matto… gridandomi che ero passibile di fucilazione. Come lui ha smesso, ho iniziato io ad urlare, dicendogli che io ero responsabile della salute dei prigionieri (…). Dopo un paio di mesi, dietro la stazione di Eschrshausen, antistante ad una piazzetta e vicino alla casa del Lagerfuhrer, m’era stato assegnato un locale dove potevo tenere gli ammalati più gravi e dove ogni mattina il dottore Woldeke veniva per visitare gli ammalati. Il medico poi si regolava nel concedere i giorni di riposo, con quello che io proponevo; se poi c’era un caso grave, gli chiedevo il ricovero nell’ospedale di Holzminden”.
Il ritorno a casa
“All’incrocio di via Roma e via Dante, ricordo che un signore mi ha chiesto dov’era Piazza Tre Martiri, ma io non ho saputo rispondere, perché ancora non sapevo quello che era avvenuto nella piazza che, prima dell’impiccagione dei tre martiri riminesi, si chiamava Giulio Cesare. Proseguendo poi ho visto la Chiesa di S. Agostino, rimasta ancora intatta nonostante i tanti bombardamenti susseguitisi a Rimini. Arrivato in via Bonsi, ho visto che la mia casa era come quando l’avevo lasciata; ho provato una fortissima e indescrivibile emozione nel rivederla. In terra, vicino al portone, ho appoggiato tutto quello che avevo, zaino e borsa, poi mi sono seduto sullo scalino, pensando che potevo aspettare il giorno e non svegliare chi dormiva. Nell’attesa, m’è venuto da piangere, e benché mi contenessi il più possibile, ad un certo momento dalla finestra aperta della casa di fronte alla mia, s’è affacciato il dottor Vitali che, vedendomi si è messo ad esclamare a voce alta chiamandomi per nome. Io, soffocando i singhiozzi, gli ho fatto un cenno di saluto con la mano e gli ho rivolto l’augurio di buon giorno. Lui, alzando ancora di più la voce s’è messo a gridare: «Maria, Maria» e quasi subito s’è aperta la persiana di casa e mia madre, con mio padre, gridando il mio nome, sono venuti di corsa ad aprirmi il portone. Il seguito ve lo lascio immaginare”.
a cura di Angela De Rubeis