Al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena Anna Bolena primo grande capolavoro di Donizetti, una volta tanto in edizione integrale
ROMA, 28 febbraio 2019 – Quando vengono tagliate, certe opere appaiono fin troppo lunghe: assistendo all’esecuzione integrale di Anna Bolena – più di tre ore di musica – non si avverte invece alcuna sensazione di stanchezza. La versione completa permette infatti di cogliere tutta la grandiosa architettura di questo capolavoro e il talento innovatore di Donizetti (fu il primo grande successo, nel 1830) nell’affrontare la materia drammatica e, allo stesso tempo, il suo progressivo affrancamento dal belcanto rossiniano. Si rimane così soggiogati da una partitura in grado di catturare per la sua potenza tragica, d’altronde benissimo valorizzata dal libretto di Felice Romani, e la sapiente articolazione dei pezzi d’insieme: la stessa aria conclusiva della protagonista, lungi dall’essere un consueto assolo, assume il profilo di una polifonica ‘gran scena’ dalla struttura frastagliatissima.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha dunque proposto nella più assoluta integrità questa ‘tragedia lirica in due atti’. L’operazione richiederebbe, tra podio e cast, una squadra talentatissima e qui, se non altro, c’era una protagonista all’altezza della situazione: Maria Agresta. Il suo approccio è differente da quello dei tanti soprani lirici (e talvolta anche lirico-leggeri) che si sono voluti cimentare nel drammatico ruolo della sovrana inglese: pure la Agresta è, tendenzialmente, un soprano lirico e la sua voce difetta un po’ in quella regione centro-grave dove gravitano i momenti più tragici e oscuri del personaggio. Tuttavia, la cantante domina il profilo di Bolena, convertendo in pregi queste sue caratteristiche: certe discese in basso, che potrebbero apparire quasi ai limiti della stimbratura, si trasformano in accenti di forte carica espressiva; inoltre sa affrontare ‘di forza’ le salite in acuto, imprimendo l’indispensabile drammaticità a uno strumento, qual è il suo, per natura più incline alla dimensione patetico-elegiaca.
Così facendo, invece, la Agresta restituisce efficacemente il ritratto non solo di una vittima, ma di un’intrigante arrampicatrice, che ha molto combattuto per farsi sposare da Enrico VIII – seconda moglie di un elenco dove si annoverano ben sei consorti – il quale, a un certo punto, preferì sbarazzarsene mandandola al patibolo. Sulla fine di questo legame pesarono numerosi fattori, non ultimo la relazione che il sovrano aveva intrecciato con Jane Seymour, dama di compagnia di Anna, qui interpretata da Carmela Remigio. Nonostante una certa usura vocale, anche lei riesce a plasmare un ritratto convincente tra sensualità e rimorsi: da un lato lusingata dal corteggiamento del re, dall’altro a disagio perché consapevole di aver tradito la fiducia della regina.
I due lati maschili del quadrilatero amoroso prevedevano il tenore René Barbera e il basso Dario Russo. Il primo si accolla l’arduo ruolo di Percy (concepito da Donizetti per il mitico Rubini), antico amante di Anna da lei abbandonato in vista del più vantaggioso matrimonio reale, mostrandosi a suo agio nella regione più acuta, mentre in quella centrale i suoni appaiono spesso intubati. Il secondo, impacciato in scena nelle vesti regali di Enrico VIII, ha mostrato di possedere una solida emissione da basso, anche se nel secondo atto sono apparsi evidenti alcuni segni di stanchezza. Corretta e verosimile Martina Belli nei panni di Smeton, paggio en travesti innamorato della sovrana; notevole, poi, il contributo del giovane baritono ucraino Andrii Ganchuk, sicuro nel canto e in possesso di una voce sempre ben risonante, come ambiguo fratello della protagonista.
Alla bacchetta di Riccardo Frizza sembra essere invece sfuggita l’arcata complessiva dell’opera, anche – si direbbe – a causa di certi inopinati rallentamenti e altrettanto brusche accelerazioni. Insolitamente appannato il coro, mentre la regia di Andrea De Rosa ha svolto, in primo luogo, un accurato lavoro sulla recitazione dei cantanti. Nelle scene stilizzate di Luigi Ferrigno (da un’idea di Sergio Tramonti), giocate tra riverberi metallici e la dialettica tra rosso e nero, troneggiava una moderna rivisitazione tecnologica della Torre londinese. Di eleganza astratta e minimalista anche l’interpretazione dei costumi cinquecenteschi da parte di Ursula Patzak.
Giulia Vannoni