Angelini, lo chef delle grandi stelle

    Buon appetito. Un piatto di spaghetti all’amatriciana e una bottiglia di sangiovese superiore di una delle giovani e capaci case vinicole riminesi. La scena è di quelle classiche, in zona. Un po’ meno a Hollywood. Precisamente a Beverly Boulevard, vicino a Beverly Hills. Eppure questo è quello che accade quotidianamente all’Osteria, il ristorante dello chef riminese Gino Angelini che, dal 1995, vive e lavora negli Stati Uniti. Non è un personaggio nuovo alle cronache, Angelini, anzi! È uno degli chef italiani più famosi degli States che ha avuto, e ancora ha, tra i suoi avventori, personaggi quali Cameron Diaz, Tom Hanks, Matt Dillon, Leonardo Di Caprio, Steven Spielberg, Sharon Stone, Andy Garcia e così via, solo per citare i primi che vengono in mente. Tutti accomunati dalla passione e dal gusto per la cucina italiana, in generale, e per quella emiliano romagnola, che Angelini prepara con prodotti e materie prime in arrivo dall’Italia e dall’Europa.
    Ma non è stato tutto rose e fiori.
    “All’inizio non è stato facile, perché gli americani hanno un’idea molto personale della cucina italiana. Le lasagne, ad esempio, erano una mattonella di pasta con sopra la salsa alla besciamella. Quando io ho iniziato a preparare le vere lasagne emiliane, in molti chiamavano il cameriere e chiedevano della salsa aggiuntiva. Ogni volta dovevo uscire dalla cucina e spiegare che sulle lasagne non va nessuna salsa! Stessa cosa per la pasta. Io la faccio al dente, e puntualmente qualcuno la rimandava indietro dicendo che non andava bene”.
    Ma l’apice lo si raggiunge con i tagliolini Alfredo, un fantomatico piatto italiano preparato con pasta scotta, burro, panna e formaggio.
    “Nessuno in Italia ha mai sentito parlare degli spaghetti Alfredo, ma molti, qui in America, sono convinti che sia tipico delle nostre parti!”.

    Alla fine la testardaggine di Angelini, e la sua decisione di non cambiare strada, non solo ha fugato i pregiudizi sulla cucina italiana (solo aglio, pomodoro e spaghetti Alfredo), ma ha anche fatto appassionare ai gusti nostrani migliaia e migliaia di gourmet e semplici cittadini che ogni giorno affollano il suo ristorante sia in pausa pranzo sia per cena, dal pomeriggio fino a tarda notte.
    A differenza di altri riminesi, Gino Angelini non è andato in America a cercare nuovi lavori, ma è stato trascinato da Mauro Vincenti per lavorare in un suo ristorante, il Rex, un’istituzione della cucina italiana a Los Angeles. Già nel 1995, Angelini, classe 1953, era conosciuto e apprezzato in Italia per le sue doti e il suo estro. A Rimini aveva battezzato i ristoranti stellati e i più famosi, tra cui il Caffé delle Rose, il Park Hotel e soprattutto l’Ambasciatori. In America era già stato nel 1993 per una cena in onore di Federico Fellini, in occasione dell’Oscar al grande maestro riminese.
    Com’è stato il suo arrivo in America?
    “Sono arrivato il giorno del Ringraziamento nel 1995. Era un autunno piuttosto tranquillo, il lavoro era calmo e Vincenti mi disse di andare a provare a fare qualcosa nel suo ristorante in America. Partii, ma la mia idea era di stare poco tempo. Basti dire che non solo non conoscevo la lingua, ma da allora ho ancora e solo la green card, non ho mai fatto la richiesta di cittadinanza. Poi le cose sono andate in maniera diversa. Nel 1997 ho aperto un nuovo ristorante di Vincenti a Brentwood. Ho lavorato lì per due anni (anni nei quali l’Esquire lo definirà uno dei migliori 25 ristoranti d’America) e infine nel 1999 ho deciso di dare vita ad un luogo tutto mio: l’Osteria!”.
    In questi anni com’è cambiata la sua cucina?
    “È cambiata molto. In Italia ero conosciuto per una cucina molto ricercata ed elaborata, che ho fatto volentieri nei primi anni del lavoro. Negli anni dei ristoranti di Vincenti, invece, ho ripensato il mio modo di cucinare e sono andato sempre di più verso i sapori e i piatti essenziali. Mi piaceva l’idea di riscoprire la tradizione così com’era, senza troppi fronzoli. Mi sono accorto che la cosa piaceva e ho tenuto questa filosofia quando ho deciso di aprire il mio ristorante. In effetti l’Osteria vuol essere proprio questo: un’osteria, nel vero senso della parola, un luogo semplice, dove mangiare i piatti tipici della tradizione”.
    Com’è lavorare in America, rispetto all’Italia?
    “C’è molta curiosità. All’inizio ho dovuto lottare per affermare la mia idea di piatti italiani. Ma chi si siede al tavolo ha voglia di scoprire sapori nuovi e conoscere i gusti italiani. Sta crescendo la cultura del cliente medio, soprattutto nel vino, in cui gli americani sono sempre più preparati. Si sta anche affermando una idea della tavola più simile alla nostra, come luogo di incontro, di dialogo e di degustazione e non solo per mangiare. A pranzo è più difficile, perché tutti sono sempre di corsa, ma già a cena c’è un po’ più di calma e di attenzione. Dal punto di vista tecnico lavorare in America non è sempre facile. La zona in cui si trova il ristorante è molto trafficata e,quindi, per riuscire a tenere un buon ritmo, ho molti dipendenti, sia in sala sia in cucina E inoltre gli ispettori dell’igiene fanno continue visite a sorpresa. Negli States le norme sono ferree. Ogni cibo va etichettato, tutto va toccato con i guanti. Tra una pietanza e l’altra bisogna lavarsi le mani”.
    Cosa propone nel suo ristorante?
    “Cucina italiana. Verace. Non medio più, nei piatti. Li preparo come se avessi un pubblico italiano. Gioco tutto sull’italianità, e la cosa piace. Poi mi spingo ancora più in là, proponendo soprattutto la mia regione: piatti tipici romagnoli e vini della zona. Nel menù dei vini ho una pagina tutta dedicata ai vini romagnoli e riminesi, come i sangiovese di San Patrignano, di Drei Donà, della Tenuta Zerbina. I prodotti tipici me li faccio spedire direttamente dall’Italia: il prosciutto di Parma, i pecorini, il pesce fresco, che arriva due volte la settimana”.
    Il pesce riminese sui piatti di Beverly Hills?
    “Sì. E anche il pesce quello più povero della nostra tradizione, come le sogliole impanate e grigliate, che riscuotono sempre grande successo”.
    Quanto paga un americano per un piatto di sogliole?
    “Anche fino a 40 dollari. Io stesso, però, le pago più di 20, per farle arrivare fino a qua”.
    Come si sente ora che è famoso?
    “Bella domanda. Passo in cucina la maggior parte delle mie giornate. Molti attori e registi, che si sono appassionati alla mia cucina, li ho conosciuti e siamo diventati amici, anche perché qui, ora, c’è la moda di regalarsi, tra amici, una cena italiana con chef a casa propria, e mi è capitato più di una volta di trovarmi nella villa di qualche attore a cucinare per lui e i suoi ospiti. Altri, però, ancora non ho imparato a conoscerli. Ogni tanto qualcuno dei miei dipendenti si avvicina e mi dice: ma lo sai chi è quello che è appena andato via? John Travolta! Ciò non toglie che ho avuto anche le mie soddisfazioni. Ho cucinato per Mikhail Gorbachov una volta quand’ero in Russia per una delegazione italiana; per Giovanni Paolo II, per François Mitterand. Sono contento, non posso negarlo. Le cose vanno bene e anche in un periodo di difficoltà come questo non ho di che lamentarmi. Qui anche il tempo è ottimo! È estate undici mesi all’anno e il clima è asciutto. Ma il mio sogno adesso, sarebbe quello di tornare in Italia e magari di aprire un piccolo ristorante, sempre con una quarantina di coperti, come questo, a Rimini o a Coriano”.
    È particolare che in un momento in cui in molti pensano di lasciare il paese – e sempre Angelini ci racconta che durante il suo ultimi viaggio in Italia, molti ragazzi gli hanno chiesto di poter andare a lavorare da lui, per imparare – lui abbia voglia di tornare. Le radici sono più di una provenienza, sono un tarlo. Va a finire che uno sente quasi la mancanza del nebbione che avvolge la città e rende tutto malinconico.

    Stefano Rossini