“Il retaggio che ci ha lasciato Fellini, consente a Rimini di possedere tra le mani un immaginario collettivo a livello internazionale, sicuramente. E questo è un valore aggiunto, un valore importante per l’apertura di una scuola di tecniche cinematografiche”.
Anche Andrea Magnani, regista nato all’ombra dell’Arco d’Augusto, è propositivo e concorde sull’idea avanzata da Pupi Avati circa l’apertura di una scuola di cinema, proposta e raccontata negli ultimi numeri de ilPonte.
“È vero che bisogna tener conto del bacino di lavoro che si può creare, da proporre ai potenziali allievi. La storia legata all’industria cinematografica di Rimini, forse più di altri posti, può essere un buon trampolino di lancio, un punto di partenza, da cui poi fare il grande salto. Perché importante è insegnare e spiegare ai probabili partecipanti che si tratta di un mestiere, sia a voler fare il regista, lo sceneggiatore, il produttore o qualsivoglia tecnico a questo mondo legato – che ti spinge a misurarti con un’industria nazionale prima e, perché no, anche internazionale poi.
È un lavoro che richiede spostamenti, viaggi. Rimini può offrire una formazione di figure professionali di questo genere, con il background che possiede, ma quest’ultime non necessariamente poi devono rimanere legate al territorio. Bisogna capirlo e accettarlo”.
Magnani, ci racconti com’è nata la sua vocazione di regista, sceneggiatore e produttore.
“Ho sempre avuto la passione della scrittura e all’inizio non sapevo come convogliarla, ero indeciso tra la forma narrativa e la sceneggiatura cinematografica.
Mentre frequentavo l’Università di Urbino di Scienze Politiche, sono venuto a conoscenza di un corso di sceneggiatura tenuto a Cagli, sempre in provincia di Pesaro-Urbino. Si trattava di un corso annuale, tra l’altro anche molto particolare. Tra i docenti c’erano nomi di spicco come Umberto Contarello – autore ad esempio de La Grande Bellezza – e Giuseppe Piccioni, un regista all’epoca molto affermato.
Dopo tanti anni di sceneggiatura, il passaggio a regista è nato dalla voglia di poter raccontare le storie dal mio punto di vista personale. Da Rimini quindi mi sono poi trasferito a Roma, e poi ancora a Trieste dove ho fondato la mia società di produzione, che tutt’ora esiste e di cui sono tutt’ora amministratore.
Rimini è stato il primo gradino di una grande scala, che mi ha condotto alla realizzazione del mio sogno.
Quello che scrivo e che dirigo oggi lo devo soprattutto al background che ho avuto qui”.
Rimini gioca molto nell’immaginario collettivo. Questo quindi incide?
“Film felliniani eterni come Amarcord, I Vitelloni, raccontano quello che è tipico di una città come la nostra. Sono città sì, di turismo balneare soprattutto, ma che incarnano una dicotomia, una distanza enorme tra inverno ed estate. Questo si presta molto a livello drammaturgico, perché l’estate è apertura, solarità, vita; l’inverno in qualche modo significa riflessione, chiusura. Rimini è una città che regala quindi emozioni forti, è capace di trasmettere tanto e di donare tanto anche ad un’eventuale scuola di cinema”.
L’industria del cinema cambia velocemente, assume nuove e sempre più variegate sfaccettature. Le piattaforme streaming, ad esempio, creano problemi o nuove opportunità?
“Secondo il mio pensiero creano certamente nuove opportunità. Pensiamo se non ci fossero state durante la pandemia! Hanno sopperito a molti tagli, restrizioni.
Quello che è vero anche, però, è che cambiano la fruizione e la percezione del cinema. Cioè, in una sala cinematografica tu entri e sei costretto per quelle due ore a stare seduto a vedere quella storia fino alla fine, quindi è necessaria una certa attenzione, una certa dose di curiosità. Con le piattaforme streaming, invece, ci si avvicina più ad una fruizione simile a quella che si può avere leggendo un libro, nel senso che il libro lo apri e lo chiudi quando vuoi e quindi, di conseguenza, la narrazione viene stoppata. Inizi un film, o una serie tv e dopo un po’ magari lo interrompi perché hai altro da fare.
Questa è la vera differenza, che poi non è necessariamente un problema. Però la drammaturgia cinematografica è sempre stata la compressione di un dramma all’interno di un tempo preciso e, secondo me, frammezzando questo tempo si può in un qualche modo abbassare il livello qualitativo delle storie che si raccontano”.
E cosa ci dici del tuo ultimo lavoro?
“Ho finito di girare un nuovo lungometraggio asettembre. Ora siamo in fase di post produzione e spero entro l’anno di approdare ad un festival e di conseguenza poi in sala. Posso dire il titolo, che ho scelto proprio l’altro giorno, che attualmente è: Qui Dentro.
La trama racconta la storia di un bambino che nasce in carcere da genitori detenuti e che grazie alla legge che lo prevede può rimanere con la madre detenuta fino al compimento di una determinata età. Attualmente la legge italiana prevede 3 anni, nel mio film un po’ di più. Quello che mi interessa raccontare è la storia di una persona che comunque rimane legata a quel luogo, al carcere, che lo sente come ‘casa’, e di conseguenza si ritrova sempre più inadeguato la ‘fuori’.
Ecco perché, da grande, poi deciderà di tornare in carcere come agente di polizia penitenziaria. Questo è il percorso di un uomo che ricerca la sua libertà e che, paradossalmente, la trova in carcere”.
Martina Bacchetta
Il trailer del film di Andrea Magnani: Un viaggio facile facile