Egregio Direttore,
il mio interessamento al compianto Marvelli fu generato dalla curiosità, leggendo su il Ponte, al quale sono abbonato fin da lontano maggio 1985, dei tanti ritrovamenti di appunti e diari, raccolti da monsignor Lanfranchi e pubblicati sui tanti libri, più o meno corposi, dati alle stampe. sempre puntualmente anticipati da il Ponte. È stata proprio quella generosa e copiosa pubblicazione a spingermi a dare questa testimonianza personale. Ciò che è avvenuto tra me e Marvelli, o meglio, tra noi sminatori ed Alberto, può capitare a tutti, ogni giorno. Anche i santi possono perdere la pazienza, tanto più se convinti di essere nella ragione; questo è avvenuto nel caso accaduto tra Marvelli e me, mentre capeggiavo gli sminatori durante le operazioni di brillamento delle mine da noi precedentemente dissepolte, con relativo rischio, dai campi minati.
Si può essere santo pur avendo commesso un errore, specie quando questo è seguito dal ripensamento. Troverei piuttosto in errore, o in peccato, secondo come si voglia chiamarlo, chi impiegasse i propri sforzi, spremesse le meningi, per far emergere solo i meriti e non i torti.
Ecco dunque la storia che provocò lo scontro tra noi sminatori e Marvelli, il successivo intervento dei carabinieri della stazione di Rimini chiamati da lui; la trattativa, il dialogo per arrivare ad ogni chiarimento, e la conclusione giusta della faccenda.
A questo proposito sento tra l’altro il dovere di precisare che nessuno di noi sminatori conosceva Alberto Marvelli; nessuno sapeva che fosse assessore ai Lavori Pubblici del comune di Rimini.
Era una mattina di fine settembre-primi ottobre 1945. Un uomo, in pigiama a righe, correva verso di noi, attraversando la distanza che divideva la battigia del mare dalle ville che confinavano con l’arenile, dove a quei tempi, era situato il tiro a volo. Eravamo usciti appena dal suo interno, dove ci eravamo riparati dalle schegge del primo brillamento delle mine, che noi sminatori, facevamo all’aria aperta, anziché in mare.
Quell’uomo si bloccò davanti a noi, stravolto; il suo viso presentava qualche lieve escoriazione, forse per i calcinacci caduti addosso mentre dormiva e pronunciò nei nostri riguardi parole offensive.
Avevamo pochi giorni prima celebrato il funerale di un compagno di lavoro, Dante Della Vittoria, dilaniato da una mina anticarro nella sinistra del porto di Rimini. Dunque eravamo parecchio tesi. In quel momento mi trovavo il più vicino a quell’uomo in pigiama che nessuno di noi aveva mai visto e conosciuto.
Reagii immediatamente mollandogli un pugno in pieno viso che gli fece volare gli occhiali da vista.
Lo sconosciuto non pronunciò parola. Raccattò gli occhiali e si allontanò subito.
Si fece tra di noi qualche commento e riprendemmo il nostro lavoro. Le mine, già tolte dal terreno, dovevano essere trasportate a mano dagli orti a monte di via Regina Margherita, sulla battigia del mare, e lì, anziché usare dieci mine per “fornello” sott’acqua, come facevamo fino al giorno prima, ne usavamo solo due. Ma, a parte l’effetto sismico, all’aperto lo scoppio e lo spostamento d’aria si rendeva più deteriore se nelle case vicine non venivano spalancate porte e finestre, cosa che probabilmente non era stata fatta in casa Marvelli.
Con il metodo di dieci mine per ogni “fornello”, fatto brillare sotto un metro d’acqua in mare, si era infatti verificato che qualcuna rimaneva inesplosa per difetto della miccia a contatto per troppo tempo con l’acqua. Tutto ciò avrebbe accresciuto la difficoltà di ritrovamento da parte nostra se una mareggiata le avesse spostate e sepolte con la sabbia. Avuto l’ordine dal nostro comando di procedere con piccole cariche fuori dall’acqua, passammo ad avvertire casa per casa, che aprissero porte e finestre, dalle otto del mattino in poi. Era infatti la prima volta che accadeva ciò.
Si stava procedendo alla seconda preparazione delle cariche quando giunsero due auto dei Carabinieri. Ci apprestavamo ad attraversare, in sei, con due mine ciascuno, il viale principale, ma venimmo intimati di fermarci. Dalla prima auto erano scesi due ufficiali e un uomo in borghese, dall’altra, quattro militari, armati di moschetto.
L’uomo in borghese, Marvelli, mi indicò a loro. Fui subito invitato di seguirli in caserma, cosa che io ho rifiutato decisamente. I miei compagni approvarono il mio rifiuto per non dire che avrebbero impedito ai carabinieri di arrestarmi.
Tirammo per le lunghe la corda da una parte sempre mantenendo tra di noi una rispettosa distanza, perché continuavamo ad avere in mano due mine ciascuno. Una terza auto giunse a proposito. Era la macchina del nostro comando con il nostro capitano Pascoli e il tenente Mariani (eravamo civili comandati da militari) e l’assistente tecnico Mario Grassi. Spiegammo come si era venuta a creare una tale situazione.
Subito i quattro ufficiali e Marvelli si allontanarono parlando tra loro. Dopo mezz’ora tornarono dicendoci che la cosa era appianata e che sarebbe stata prevista una soluzione atta ad evitare ulteriori danni alla zona già tanto martoriata dagli eventi bellici. L’assessore ai lavori pubblici Marvelli, avrebbe portato in giunta comunale, la richiesta per ottenere due zatteroni, ove caricare le mine in blocco, farli trainare a rimorchio da barche a motore, per farle brillare, con un sol colpo, in alto mare.
La cosa non ebbe seguito perché la giunta non disponeva di fondi necessari. Ci dettero in dotazione un motofurgone con il quale abbiamo, con la cautela necessaria e l’eventuale rischio, trasportato tutte le mine nella zona di Igea Marina, allora tutta deserta e proseguimmo la loro distruzione.
Lo screzio, se così si può chiamare, sorto tra noi e Alberto Marvelli svanì positivamente. Non credo che la cosa abbia lasciato alcun rammarico, perché dopo averlo conosciuto bene, la notizia della sua morte ci addolorò tutti infinitamente. Purtroppo non fummo presenti al funerale per rendere onore alla persona, perché impegnati come sminatori nel Bolognese ignari della disgrazia che era accaduta.
Silvano Lisi