Concerto dell’Orchestra Filarmonica di Parigi diretta dal giovane astro del podio, il ventinovenne Klaus Mäkelä
FRANCOFORTE, 7 marzo 2025 – Un’impaginazione del programma accuratamente pensata e, nello stesso tempo, fra le più accattivanti. Klaus Mäkelä ha scelto di aprire il suo concerto all’Alte Oper di Francoforte con un tributo a Ravel – obbligatorio quest’anno, in concomitanza del centocinquantenario dalla nascita – per approdare infine ai Quadri di Musorgskij, ovviamente proposti nell’orchestrazione del compositore francese, dopo aver circumnavigato Stravinskij. Musiche nate a pochi anni di distanza fra loro e, dunque, in grado di restituire l’atmosfera di un’epoca in cui cultura russa e francese si sono intrecciate indissolubilmente: una scelta, fra l’altro, apparsa anche congeniale alle caratteristiche dell’Orchestra Filarmonica di Parigi.

Il direttore finlandese – ventinove anni appena, ma già prescelto come successore di Muti alla guida della Chicago Symphony Orchestra – ha così aperto la serata con Ma mère l’Oye di Ravel. Concepita per pianoforte, e solo in seguito trasformata dall’autore in una versione strumentale, questa composizione conserva un carattere essenzialmente narrativo (si tratta del resto di cinque pezzi infantili ispirati ad altrettanti celebri racconti di favolisti francesi): Mäkelä, nella sua lettura, ha reso sempre ben percepibile questo andamento, ponendo al contempo grande attenzione a quella componente timbrica che sarà poi dominante nei Quadri. Il cortocircuito tra rimandi e riverberazioni diventa così evidentissimo dal secondo movimento, quello in cui sembra di avvertire tutta l’angoscia di Pollicino quando si accorge di aver perso le tracce affidate alle briciole.
Emozionante l’esecuzione della Suite dal balletto Petrouška (proposta nella versione del 1947, realizzata negli Stati Uniti dallo stesso Stravinskij), per la plasticità quasi teatrale con cui si staglia la figura della marionetta russa, che rivela la sua inesauribile gamma di sfaccettature – irascibili e patetiche, audaci e malinconiche, sfrenate e dolorose – sullo sfondo degli echi di un carnevale destrutturato nei timbri e nella ritmica. Anche in questo caso Mäkelä non si è limitato a valorizzare gli intensi contrasti dinamici, ma ha adottato un approccio analitico, dove vengono scandagliati i dettagli più piccoli esasperandoli fin quasi al parossismo: senza mai trasformarsi in sterile esibizionismo dimostrativo, anzi andando sempre alla ricerca delle motivazioni musicali più profonde.
Il concerto si è concluso con i Quadri di un’esposizione orchestrati da Ravel nel 1922, ossia quasi mezzo secolo dopo la stesura originale per pianoforte di Musorgskij. L’esecuzione sembra concepita nell’intento di preparare l’approdo conclusivo, transitando attraverso la scabra essenzialità dei dieci dipinti cui si era ispirato il compositore russo e le rassicuranti Promenade che li intervallano. Così costruito, il raggiungimento della Grande porta di Kiev finale appare in tutta la sua maestosa luminosità: qui si scioglie ogni tensione, cedendo il passo al trionfo di colori disegnato da Ravel. Certamente è questa musica – e ancor più quella di Ma mère l’Oye – ad appartenere al lessico familiare della Filarmonica parigina. Mäkelä, però, è riuscito a trascinare gli strumentisti francesi anche attraverso la complessità ritmica e la velocità necessaria ai tempi impressi da Stravinskij. A dimostrazione di come si possa superare ogni ostacolo, e ampliare l’orizzonte, quando a infondere energia c’è un direttore carismatico e con le idee ben chiare.