L’editore verucchiese Pazzini ha da poco dato alle stampe un piccolo libro del vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi. Il volume (La conoscenza diviene amore. Riflessioni sull’incontro tra fede e ragione pp. 78, euro 7,50) , curato dal professor Natalino Valentini, raccoglie due importanti contributi sul nesso tra fede e ragione: la prolusione al nuovo anno accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Alberto Marvelli”, e la Lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna – Polo di Rimini. Un filo rosso unisce i due interventi: il primo va al cuore del rapporto fede-ragione; il secondo riprende e declina quel rapporto entro l’orizzonte della cultura odierna.
Quando si commenta “in pubblico” uno scritto del proprio vescovo, la tentazione dell’encomio preventivo è dietro l’angolo. Ma questa strategia finisce per minimizzare l’importanza di ciò che, pure, vorrebbe esaltare. Dunque, mi asterrò dal passare in rassegna i meriti del testo. Naturalmente, la sua qualità letteraria e teologica è molto elevata. Ma gli indiscutibili pregi dell’opera possono ben poco a fronte del malizioso pensiero con cui spesso accogliamo le parole di chi, nella chiesa, esercita il munus docendi: “ho già la mia opinione”. Ebbene, la riflessione del vescovo assesta un bel colpo proprio ad alcuni cliché dominanti, radicati anche tra i credenti. Mi limiterò, qui, a citarne un paio.
Il primo suona così: la fede ci soccorre là dove ci abbandona la ragione La tesi sembra, di primo acchito, inoppugnabile: non è forse vero che i misteri della salvezza superano i limiti dell’umana comprensione? Eppure, proprio sul tronco di questa innocua distinzione (“fin qui la ragione, da qui in poi la fede“), è fiorita l’incredulità moderna. Cosa dire, infatti, a colui che, dopo aver comodamente viaggiato sulla barca della ragione, si scopre soddisfatto delle mete raggiunte? Come persuaderlo a cambiare naviglio e a fare rotta verso un oscuro punto d’approdo, che non compare in nessuna delle mappe disponibili? A chi lo invita a fare il “salto nella fede”, egli replicherà, infastidito, con le parole del cavaliere nel celebre film di Ingmar Bergman, il Settimo sigillo: “Io voglio sapere. Non credere”.
Si può dargli torto? Si può passare oltre, incuranti di tale pretesa? Forse che l’uomo, per poter credere, deve “dimettersi da animal rationale, o da canna pensante”? Se prendiamo per buona la divisione del lavoro tra fede e ragione (una comincia dove l’altra finisce), saremo costretti a scegliere tra razionalismo e fideismo: i temperamenti più risoluti e disincantati resteranno fedeli alla terra, quelli più incerti e sentimentali volgeranno gli occhi al cielo. Come possiamo sottrarci a questa rovinosa alternativa? Monsignor Lambiasi ci invita a contemplare una verità fondamentale, così come emerge sia dalla storia della salvezza, sia da un’onesta riflessione sull’esperienza umana: l’amore è al principio e alla fine della conoscenza.
Che cosa ci racconta, la storia della salvezza? Dio ci ha amati per primo, di un amore eterno e indefettibile. Da “vero filantropo”, Egli ha distrutto le false rappresentazioni del divino, che ci obbligavano a celebrarne la maestà con “sacrifici” e “vittime”. Ora possiamo rendere a Dio il solo culto a Lui gradito, che consiste nell’imitare – per grazia – la sua stessa charis, ossia nell’accogliere, umili e stupiti, il suo amore gratuito. Cos’è, dunque, la fede? Il vescovo risponde nel solco della Dei Verbum: la fede è l’atto con cui un uomo si consegna liberamente e totalmente a Dio, sapendosi da Lui amato senza condizioni.
Una dinamica analoga, a ben vedere, governa il risveglio e lo sviluppo della coscienza. Se la realtà non avesse, agli occhi di un bambino, il volto tenero e indulgente della madre (e di un padre), potrebbe mai scoccare in lui la scintilla dell’intelligenza? Potrebbe mai destarsi la sua curiosità per il mondo, senza la rassicurante presenza dei genitori? La ragione, in altre parole, opera al meglio delle sue possibilità quando è sostenuta dalla certezza che le cose sono buone, che il fondo della realtà è amico dell’uomo. Questa certezza è la conoscenza decisiva, perché sostiene e indirizza tutte le altre. Tuttavia, non la si apprende con il mero ragionamento, bensì ragionando all’interno di una storia e di una comunità d’amore.
L’altro luogo comune, a cadere sotto la lucida analisi di monsignor Lambiasi, è una visione distorta della laicità. Spesso si dice: l’etica pubblica, in uno stato democratico, deve essere equidistante rispetto alle credenze morali e religiose dei suoi cittadini. In altre parole, l’ordinamento fondamentale di una comunità si regge sulle proprie gambe, e non ha dunque bisogno di abbeverarsi a fonti di valore pre-politiche. Una visione siffatta considera l’uomo “il creatore di tutti i valori”. Si tratta, peraltro, di un punto di vista del tutto immaginario. Gli uomini, presi singolarmente, creano ben poco. Generano qualcosa solo quando si associano e formano le grandi realtà collettive (classi, nazioni, stati). Così, i beni sociali a cui teniamo di più, ossia le libertà e i diritti fondamentali, si configurano come delle “concessioni” che un macrooggetto (in genere lo stato) fa a un microsoggetto (l’individuo).
In questa versione distorta della laicità alligna il germe della degenerazione totalitaria. La chiesa cerca di scongiurare tale evenienza, riabilitando il diritto e i valori naturali. Essa si oppone all’idea che lo stato sia l’ultima sorgente dei diritti dei cittadini. Difendendo la libertà di coscienza e la dignità di ogni vita umana, la chiesa “non limita la libertà di autodeterminazione dei non cattolici, perché non difende suoi interessi, ma beni comuni a tutti”.
Nevio Genghini